martedì 14 gennaio 2014

UN BILANCIO DI 44 ANNI DI SACERDOZIO

 

  

da ADISTA del 23.11.2013

 

 Recife-ADISTA. Nel 44° anniversario della sua ordinazione presbiterale, il benedettino brasiliano Marcelo Barros, biblista e teologo della liberazione tra i più conosciuti e amati, ha deciso, per celebrare l'occasione, di scrivere ai suoi "compagni di cammino e di ricerca" una lettera che è, al tempo stesso, un ringraziamento commosso e un provvisorio e lucido bilancio del suo percorso sacerdotale.

 

Cari fratelli e sorelle, compagni di cammino e di ricerca,

vi scrivo per comunicarvi che oggi, 24.10.2013, celebro il 44° anniversario della mia ordinazione presbiterale e mi sento in dovere in un certo modo di dare conto di questo servizio ministeriale a voi come pure ai gruppi ecclesiali e ai movimenti popolari a cui da sempre offro la mia consulenza.

E' in questo giorno del 1969 che dom Helder Camara mi impose le mani ordinandomi prete.

Alla fine del 1962 - a 18 anni non ancora compiuti - ero entrato nel monastero benedettino di Olinda per diventare monaco. Non mi interessava fare il parroco, volevo essere un predicatore della parola. Ero allora un giovane inquieto e ribelle, mi facevo mille domande ed ero aperto a tutto, anche a quello che non conoscevo. Ero aperto perché avevo deciso di esserlo. In un monastero di quasi cinquecento anni, prima ancora che si svolgesse il Concilio Vaticano II, questo mio modo di essere non poteva non creare problemi. Tuttavia, tanto il maestro dei novizi quanto l'abate (che è in cielo) mi accettavano per quello che ero: i conflitti che vivevo nascevano dall'amicizia, non dalla distanza.

Per me, in quel tempo, diventare prete era un modo di aiutare il monastero a essere più missionario e più profondamente inserito nella Chiesa locale. Ho avuto la fortuna di convivere con dom Helder, il quale, a partire dal 1967, mi aveva chiamato come suo segretario per l'ecumenismo. Un incarico che mi ha aiutato ad aprire la mente e a entrare sul serio (e non solo a livello di aspirazione) nella Chiesa più incarnata ed evangelicamente povera.

Dal giorno della mia ordinazione, ho attraversato numerosi cambiamenti di vita ho vissuto molte crisi e molti conflitti, con me stesso, con gli altri e con alcune strutture della Chiesa. Grazie a Dio, non ho mai sperimentato crisi di fede, non mi sono mai sentito in crisi con Dio: per quanto molto abbia lottato con lui, non me ne sono mai allontanato. Posso anche dire di non essermi pentito neppure per un momento di essere diventato prete, per quanto il mio modo di esserlo e di comprendere il ministero (e lo stesso Dio) sia cambiato radicalmente dal giorno dell'ordinazione a oggi.

Ora mi sento un po marginale ed emarginato in certi ambienti ufficiali della Chiesa. Alcuni amici ritengono che la colpa sia mia. Ho fatto la mia parte. Ho detto cose che non avrei dovuto dire.

Quando ho saputo che un arcivescovo amico aveva proposto al consiglio presbiterale di invitarmi a presiedere il ritiro annuale dell'arcidiocesi ma che alcuni membri del consiglio hanno messo un veto sul mio nome, confesso di esserci rimasto male. Volevo collaborare maggiormente con la mia Chiesa, la Chiesa che amo, ma questo rende le cose più difficili. Tuttavia, ricevo l'appoggio delle comunità ecclesiali di base, dei gruppi biblici, dei movimenti popolari e delle persone più legate a quanto c'è di più nuovo e aperto nella Chiesa: con tutti questi mi sento a casa e mi consolo.

Oggi, vivo il mio ministero sacerdotale come consigliere e accompagnatore spirituale di alcuni gruppi di preghiera e di alcune persone, oltre a collaborare tutte le volte che è possibile con la commissione per l'ecumenismo e con alcuni gruppi che ancora mi chiamano qua e la.

Sono prete per aiutare tutti i cristiani a vivere il loro sacerdozio battesimale, a scoprire che tutti siamo persone sacre e che lo stesso universo è santo. Che tutti siamo segni dell'amore divino e dell'unità di tutti i credenti. Questo modo di comprendere e vivere la missione voglio portarlo avanti fino al mio ultimo respiro. Adoro celebrare l'Eucarestia: non come un sacrificio rituale, ma  come memoriale della Pasqua di Gesù e cena di unità e condivisione. Non mi sento a mio agio nelle celebrazioni formali. Quando mi trovo in situazioni di questo genere, mi sento come rinchiuso in una camicia di forza, ma quando sono libero di celebrare per testimoniare l'amore folle che provo per il Vangelo, allora diventa una gioia immensa riprendere qui e ora la cena di Gesù ed esprimere così la tenerezza del cuore di Dio e la mia stessa tenerezza per i fratelli e le sorelle presenti. E' allora si, che mi sento in cielo: volo, vado e torno, senza staccare i piedi dalla terra della politica e della lotta quotidiana della vita.

Quello di cui ho bisogno ora e sempre di nuovo è lasciare che questa passione per i poveri, per gli indios, per i neri e per ogni persona emarginata faccia sempre più parte del mio modo di vivere l'intimità con quel Dio che mi da tanto e a cui purtroppo sento di dare ancora poco, troppo poco.

Voi mi aiutate in questo compito e io posso solo, profondamente commosso, ringraziarvi con tutto il cuore.

Che Dio vi benedica sempre.

Marcelo Barros