martedì 18 marzo 2014

SARÀ RIVOLUZIONE?

Francesco è stato chiamato al timone della barca di Pietro quand'era ridotta a sterile arca di Noè. Retta da una gerarchia introvertita, refrattaria ai segni dei tempi, trincerata a difesa di un fortino assediato, povera di spirito quanto ricca di mondanissimi rancori. Una Chiesa chiusa, molto romano-curiale e poco universale, che si pretendeva centro del globo pur se da tempo non lo era più. In un estremo riflesso di autoconservazione, i suoi principi hanno pescato in famiglia - per ispirazione divina, umana sapienza o puro caso, qui non importa  -  un anziano ma battagliero figlio della "fine del mondo", destinato a rinnovarne la missione.

Jorge Mario Bergoglio era la carta della disperazione di una Chiesa spenta. Un anno dopo, Francesco è il papa della speranza. Una guida spirituale che parla a tutti, oltre il recinto dei fedeli. E proprio perché capo religioso, non politico, è di fatto leader politico. Attore geopolitico. Perché diffondere il Vangelo significa scandagliare le terre di missione, "sentirle" immergendosi nei conflitti che le agitano nel passaggio d'epoca.

Papa Bergoglio coltiva la "gerarchia delle verità", fedele allo spirito conciliare (Unitatis redintegratio,11). Fatto salvo il nucleo del Vangelo (kérigma), il pastore deve calibrare gli accenti, accordare la diffusione della dottrina alle culture e alle sensibilità specifiche. Ciò vale particolarmente per gli insegnamenti etici della Chiesa, a cominciare dalla morale sessuale e familiare. (...) Su questa frontiera si gioca in buona parte la scommessa di papa Bergoglio. La geopolitica del cattolicesimo si svela qui paradossale. Le periferie terzomondiali, nuovo baricentro della Chiesa, sono le più tradizionaliste, mentre le terre di antica cristianità appaiono assai meno disponibili alla precettistica ecclesiastica corrente. Questo limes intracattolico separa Africa e Asia, sensibili ai codici vigenti, da Europa e Americhe (Latina sotto molti aspetti inclusa), dove trasgredirli è norma. La frattura è evidenziata dalla recente inchiesta del network Univisión fra dodicimila cattolici in dodici paesi dei cinque continenti, patrie di quasi due terzi dei fedeli di Roma su scala globale. Perché la Chiesa continui a negare la comunione ai divorziati risposati  -  tema su cui i conservatori hanno dato battaglia nel concistoro di febbraio, contestando il rapporto innovativo del cardinale Walter Kasper, affine all'approccio di Francesco  -  troviamo ad esempio una schiacciante maggioranza in Uganda (78%) e in Congo (72%), oltre a una robusta minoranza (46%) nelle Filippine; sul versante opposto scopriamo l'ultraliberale Spagna (appena il 12% approva la dottrina vigente), ma anche Francia (17%), Italia (16%), Argentina (23%), Brasile (27%) e Stati Uniti (32%). Inoltre, l'80% degli intervistati africani e il 76% dei filippini rifiuta il sacerdozio femminile, mentre solo una minoranza vi si oppone fra brasiliani (44%), statunitensi (36%), argentini (34%) ed europei (30%). Ancora, in Africa il 99% esclude i matrimoni gay, in Italia i "no" scendono al 66%, in gran parte delle Americhe è solo una minoranza a respingerli (48% in Argentina, 47% in Brasile, 40% negli Stati Uniti).

Viene da chiedersi se il gregge cui Francesco si offre primo pastore è ancora tale o non è già disperso in compartimenti incomunicanti. (...) Nella storia del cristianesimo riforma e unità non hanno sempre marciato allo stesso passo. La conversione missionaria della Chiesa universale si compie o fallisce nella consonanza con le Chiese particolari. Ciascuna, rimarca Francesco, "incarnata in uno spazio determinato", dotata di "un volto locale" (Evangelii gaudium, 30). Mentre si avvicina il cinquecentenario delle tesi di Lutero, prologo allo scisma protestante, il popolo cattolico  -  non solo il clero  -  è chiamato a decidere fin dove il primerear di papa Bergoglio potrà spingersi senza scardinarne l'unità. O se invece, come teme il papa, sarà il balconear di gerarchie vetuste a sancirne la diaspora. La fine.

(Lucio Caracciolo, Repubblica 12 marzo)