martedì 29 luglio 2014

Quando il dialogo è malato

Sulla parola dialogo scorrono fiumi di inchiostro. Intere biblioteche ne tessono l'elogio. A ragione. Senza dialogo non c'è futuro nel mondo e nella chiesa, tra le culture e le religioni. Come sarebbe la nostra vita quotidiana senza la pratica del dialogo?
Tutti ne siamo convinti/e. Soprattutto siamo quasi inconsciamente convinti di essere degli ottimi dialoganti: un esemplare autoritratto.
Ma il "gioco" ha delle carte nascoste difficili da riconoscere e smascherare.
Quando avviene un conflitto o si registra una distanza profonda nel nostro modo di "stare al mondo", in un'associazione o in una comunità, può succedere che si creda di mettere tutto sul conto di una "rivalità personale". Tre o quattro anni dopo, la versione cambia: sono gli altri che non sanno dialogare, che non sanno vivere la convivialità delle differenze…
E così via… e si trova un'altra scusa. Ritorna a prevalere la concezione "cattolica", travestita e mascherata, per cui il dialogo con persone intelligenti progressivamente porterebbe queste persone sulle nostre posizioni: bisogna avere pazienza perché maturino lentamente.
In sostanza, vanno bene tutte le differenze, ma la mia differenza è migliore della tua. Il tutto, beninteso, nella citazione quasi quotidiana della convivialità delle differenze, con la sincera convinzione che il "ritardo" degli altri presto o tardi sarà colmato. Soprattutto con la coscienza di essere maestri dell'arte del dialogo. Chi da venti o trent'anni in una comunità si sente impartire dalla solita cattedra lezioni di dialogo, evidentemente avverte qualcosa di più di un disagio.
Credo che sia possibile un'altra strada: vivere in modo riconciliato le distanze e saper talvolta accogliere la loro irriducibilità non carica il dialogo di onnipotenza, permette di vivere anche le più profonde differenze senza farle diventare contrapposizioni. Lasciarle esistere come normali, sane, creative , motivate, capaci di determinare scelte nuove.
Forse qualche volta è proprio il caso di tessere l'elogio del conflitto e vivere tutto il carico di sofferenza e di responsabilità per far nascere cose nuove e per tentare di guarire le nostre patologie da dialogo e i nostri dialoghi malati.

Franco Barbero