venerdì 6 maggio 2016

APPUNTI PRESI DURANTE LA CONFERENZA DI FRANCO BARBERO

Corso Biblico. Torino, 22.04.2016.

Giobbe.

La prima scena del libro inizia come una fiaba: "Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe..." una fiaba sapienziale che riguarda anche l'oggi. Giobbe è ricco, ma al tempo stesso è giusto e pieno di virtù. La ricchezza si esprime nei banchetti che avvenivano frequentemente nella famiglia patriarcale unita, ma le feste potevano facilmente degenerare in eccessi, per cui Giobbe sente la necessità di fare dei riti di purificazione dopo ciascuno di essi; questo bisogno di purificazione esprime un sentimento di debolezza della creatura, sempre a rischio di sbagliare.

La seconda scena (cap. 1, vv. 6 – 12) avviene invece in cielo: Dio è circondato da una corte di servitori come un sovrano orientale: tra di essi compare Satana, qui non ancora principe del male, ma alto funzionario al servizio di Dio; ha la funzione di tentatore; è solo una comparsa, non va confuso con l'immagine del diavolo (Alonso Schökel); egli mette in dubbio la rettitudine di Giobbe: l'uomo si rivela solo al momento della prova; è nell'asperità della vita che l'uomo si dimostra quello che è veramente. Dio consente a Satana di metterlo alla prova e su Giobbe piovono le sventure (terza scena, vv. 13 – 22), ma Giobbe non cede e mantiene la sua fiducia nel Signore. (però l'ultimo versetto: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" è un'aggiunta posteriore).

Nel capitolo 2 la scena si amplia ed entrano nuovi personaggi; Satana ottiene da Dio di mettere alla prova Giobbe colpendolo direttamente con la malattia; interviene la moglie che lo invita a reagire ed a maledire Dio; intervengono tre amici che vengono da lontano a consolarlo. Essi "sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perchè vedevano che molto grande era il suo dolore". E' un notevole esempio di uno "stare insieme, quasi naturalmente e spontaneamente consolante" (Paolo De Benedetti) il contrario degli assembramenti anonimi, compresi quelli ecclesiastici, che non consolano nessuno.

Nel capitolo 3 Giobbe, con il suo primo discorso, inizia il lungo dialogo con i tre amici venuti a consolarlo, che si protrae fino al capitolo 31. Giona maledice la vita e il mondo, ma non maledice Dio, anche se giunge vicino a farlo. Il suo grido di dolore è simile a quello che si trova in altre parti della Bibbia: in Geremia (ad es si veda il capitolo 20), in Giona (capitolo 4), con Elia (I Re, 19, 1 – 4), in situazioni dove l'uomo è messo di fronte ad una difficoltà più grande di lui e dove Dio sembra chiudere ogni via di salvezza.

Con il capitolo 4 inizia il primo discorso del primo amico di Giobbe, certo Elifaz. Gli amici rappresentano il punto di vista dell'ortodossia, imperniato sulla teoria della retribuzione, secondo la quale la sofferenza deriva in ogni caso da una colpa, nota o sconosciuta, di chi soffre o di altri (ad es. dei genitori), teoria che è presente trasversalmente nella Bibbia, ma che è stata sviluppata particolarmente da S.Anselmo nel XI secolo, che ha elaborato compiutamente la teoria dell'espiazione. La teoria risponde ad una esigenza morale di fondo dell'uomo, (se ne trovano tracce anche in altre religioni, come nella teoria buddista del Karma) ma la sua traduzione in termini giuridici ne ha fatto diventare una perversione.

La posizione di Elifat è del tutto allineata a questo punto di vista: "non nasce dalla polvere la sventura" (5,6), se c'è una sventura, ci deve essere una trasgressione, "lo so per esperienza" dice in tono beffardo, accusando Giobbe di sicumera.

Ma Giobbe nella risposta (6,1 – 7,21) si ribella, non accetta l'ortodossia ("fatemi capire dove ho sbagliato" 6,24) sente Dio come un avversario, anche se non rompe la relazione con lui. Si difende strenuamente e si lamenta di essere abbandonato dagli amici, che scappano dalle situazioni di dolore (un tema caro al Siracide).

Continua la sua appassionata difesa con un grido sulla precarietà della vita, l'uomo è "come il mercenario che aspetta il suo salario" (cap. 7, v. 2) in consonanza con il salmo 103 ("l'uomo: come l'erba sono i suoi giorni"). Il riconoscere la propria fragilità e parzialità è una virtù che ci serve nella nostra relazione con gli altri e con Dio per non occupare gli spazi che non ci spettano e rimanere in pace con noi stessi. Il canto di Giobbe diventa infine una preghiera: vuole rispettare la volontà di Dio anche se non la capisce, rimane nel "timore di Dio", e cioè nel rispetto di lui, anche nel suo silenzio e nella sua lontananza.

Nel capitolo 9 interviene il secondo amico che inasprisce il rigore della posizione ortodossa adducendo che se anche non si trova colpa in Giobbe, saranno stati i suoi figli a peccare: l'accanimento nelle questioni di principio rende ciechi anche di fronte all'evidenza dei fatti!

La risposta di Giobbe giunge subito (capitoli 9 e 10) con una aperta contestazione della teoria della retribuzione: non è vero che nel mondo il giusto prospera ed il malvagio perisce, perchè Dio lascia il malvagio prosperare e colpisce sia il colpevole che l'innocente. Ma Dio è altro da noi, non è comprensibile con la nostra logica, noi siamo pur sempre creature limitate e imperfette e subiamo la nostra condizione anche se non siamo colpevoli di nulla. Sono parole amare, di protesta e di supplica, che ricordano molte espressioni di Geremia, dette in una condizione disperata, sospesa tra la vita e la morte, dove tuttavia non si interrompe mai il dialogo con Dio né con gli amici.

Il contrasto continua con l'intervento del terzo amico (capitolo 11), che alza i toni ed arriva all'insulto, accusando Giobbe di falsità perchè si ostina a non riconoscere le proprie colpe. E così il contrasto continua in toni sempre più accesi nei capitoli che seguono, incentrato sul problema di come reggere di fronte a Dio quando non si trova il perchè del dolore e del male.

Nel prossimo incontro si concluderanno i capitoli del dibattito, fino al 28.
Guido Allice