sabato 23 luglio 2016

Mancano i fondi: centri antiviolenza

ROMA - Si chiama "Colasanti e Lopez", come le due ragazze massacrate di botte, umiliate, stuprate dai fascisti nel 1975 al Circeo. Uccisa Rosaria, sopravvissuta fingendosi morta in quel bagagliaio Donatella. È intitolato a loro il centro antiviolenza di Roma che ora rischia di chiudere, tra problemi legati ai finanziamenti e pieghe burocratiche dei nuovi bandi. Nonostante le oltre 8mila donne assistite in dieci anni di attività, molte delle quali ancora ieri tempestavano di telefonate e richieste di aiuto le operatrici dell'associazione Befree.
Ma quel luogo simbolo a rischio è anche qualcosa di più: l'emblema di una crisi che si scarica ancora sulla pelle delle donne, tra tagli di risorse e finanziamenti mai arrivati. Sono decine i centri antiviolenza in difficoltà in un Paese dove, dall'inizio dell'anno, 67 donne sono state uccise da mariti o ex compagni incapaci di accettare un abbandono. Così, di fronte a una violenza tra le mura di casa che non accenna a diminuire, monta la protesta di chi, ogni anno, segue più di 16mila vittime di violenza domestica e i loro figli. Cercando di farsi bastare i mezzi o continuando a rispondere al centralino per non lasciarle sole, come fa Rosa, operatrice al Lopez Colasanti, senza la certezza di uno stipendio futuro.
«La realtà è che, dei 16,5 milioni previsti per il 2012-2013 dal Piano nazionale anti violenza e dati alle Regioni, poco o nulla è arrivato a chi lavora sul territorio: molte Regioni, come la Lombardia, hanno ancora i fondi bloccati", sottolinea Titti Carrano, presidente della rete dei 74 centri Dire. «Non sappiamo quanti soldi siano stati dati e a chi», fa eco Gabriella Moscatelli, presidente di Telefono Rosa che gestisce rifugi e la linea di aiuto 1522.
Il cahier de doléances è lungo, come il numero delle donne che, da Milano a Palermo, continuano a bussare ai centri in cerca di un aiuto professionale. «Perché questi luoghi non sono solo un nascondiglio per chi ha denunciato, ma uno spazio in cui gli specialisti aiutano la donna a riconquistare l'autostima, a trovare un lavoro, e quindi a rendersi autonoma dal suo aguzzino», chiarisce la professoressa Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia e criminologa che per vent'anni ha lavorato nei centri Dire. «Ci sono - aggiunge - avvocati esperti di violenza di genere e psicologi per aiutare i figli che hanno assistito alle aggressioni a superare il trauma. Oltre ai tanti operatori che fanno da collegamento tra ospedali, magistratura, polizia. Servono cooperazione, fondi e progetti a lunga scadenza, non iniziative spot, come se la violenza sulle donne fosse un'emergenza momentanea».
Un lavoro complesso, che è cresciuto mentre le risorse diminuivano. «Abbiamo visto aumentare le richieste di aiuto e crollare del 70% i fondi pubblici», dicono da Artemisia di Firenze, dove ogni anno si fanno carico di 1.500 donne maltrattate. Stessa situazione a Pisa, meno 30% di finanziamenti. A Palermo il centro "Onde", negli anni, ha dovuto chiudere una casa famiglia e ridurre i posti letto nella seconda perché i soldi non arrivano malgrado il bando vinto un anno fa. A Catania, al centro Thamaia, rispondono al telefono e poi indirizzano altrove: non hanno mezzi. A Napoli Casa Fiorinda ha chiuso i battenti: era l'unico rifugio per donne picchiate in tutta la città.
Delle quasi duemila donne uccise da mariti ed ex compagni negli ultimi dieci anni, solo due avevano chiesto aiuto a centri antiviolenza. «Perché qui le donne trovano un'alternativa reale alla situazione di abusi prima che questa si trasformi in tragedia. Hanno ospitalità, ma anche un appoggio legale e psicologico per ricominciare». Non si sa per quanto ancora.
Caterina Pasolini

(la Repubblica 10 luglio)