martedì 27 settembre 2016

QOHELET

Qohelet.
(Appunti presi durante la conferenza di Franco Barbero).
Eccoci all'inizio del 38° anno del corso di cultura biblica ad affrontare il libro del Qohelet, libro contestato e grandemente discusso per la sua impostazione laica: non si parla di alleanza, esprime un punto di vista contrario a quello dei profeti; ma alla fine prevalse la linea liberal e venne ammesso nel canone ebraico tra i libri sapienziali. E' un libro che “sporca le mani” come altri libri biblici (si pensi al Deuteronomio), ma va letto interamente e non censurato, per non perdere il significato completo di una rivelazione che si esprime con fatica attraverso il linguaggio umano.
Oggi viene letto durante la festa delle capanne.
La tradizione attribuisce  a Salomone il Qohelet quando era vecchio (mentre il Cantico sarebbe espressione del re in età giovanile e i Proverbi nell'età della maturità). Ovviamente la critica storica non è in accordo con questa ipotesi molto creativa e fantastica. I testi hanno storie e tempi diversi.
Qohelet ha degli antecedenti non ebraici, di cui il più famoso è l'epopea di Gilgamesh, re sumero che cerca invano la vita senza la morte. E' espressione di una antica saggezza che osserva la natura e si accosta al mistero del mondo ripensando senza illusioni la condizione umana e concludendo con un elogio del quotidiano.
Qohelet è “colui che raccoglie”, “che mette insieme” e anche chi interviene nell'assemblea, entra nella mischia delle opinioni e dice la sua.
La parola chiave è hebel, (da cui il nome di Abele) tradotto in latino con vanitas e in italiano con varie espressioni indicanti debolezza, fragilità, caducità, inconsistenza. Non soddisfa la traduzione di De Luca con “spreco”, meglio quella di “vento leggero”, la vita è qualcosa di fragile e mutevole, ma non è da buttare, è preziosa.
Un altro leitmotiv è la continua e faticosa ricerca che è la vita: “un'occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini , perchè vi si affatichino” (1, 12). Questo faticoso investigare non finisce mai, ma nonostante questo l'uomo non può capire tutto (v., ad es. 3,11) e le nostre sono solo opinioni.
A questo tema si ricollega quello del cosiddetto “timor di Dio”, che erroneamente è stato inteso come paura del castigo divino, ma che in realtà esprime il sentimento di creaturalità dell'uomo che sta al cospetto di Dio: chi si totalizza in qualcosa (come la ricchezza, il potere, ecc.) corre dietro al vento; così chi presume di sapere tutto  e ci si sostituisce a Dio, mentre tutto ciò che noi viviamo e pensiamo è creaturale e limitato.
Una bella lezione di antidogmatismo.
Il motivo iniziale che “non c'è niente di nuovo sotto il sole” (1, 9) apre una prospettiva radicalmente diversa dai profeti che annunciano che Dio fa cose nuove portando la salvezza (come, ad esempio, in Isaia, 43,19). Per capire questa prospettiva può essere utile inquadrare il testo nella cultura del tempo: sotto il dominio dei Tolomei le culture dei popoli che non si adeguavano all'ellenismo erano disprezzate e i Giudei si trovavano in uno stato di smarrimento, di fronte all'alternativa tra adeguarsi o annullarsi; il Qohelet è un invito a non lasciarsi sedurre dalla cultura dominante (anch'essa è hebel) e di rimanere fedele ad una tradizione che vale la pena di essere vissuta anche nella dimensione modesta della quotidianità.
La conclusione che mangiare e bere e godersi il frutto delle proprie fatiche è un dono di Dio ricorre più volte nel libro (ad es. in 2,24) e non è molto distante dallo spirito con cui operava Gesù: partecipava ai banchetti ed ai momenti conviviali, come le nozze di Cana; in tutti i suoi atti di guarigione ha operato per far rifiorire la vita e non tollerare un destino di sofferenza; il Gesù sapienziale è molto vicino al Gesù profetico e le sue parole ed azioni sono volte a fare spazio alla felicità dell'uomo.