giovedì 17 novembre 2016

“Un affronto chiudere le moschee”

Roma. Il profumo di kurkuma, curry e coriandolo sovrasta quello della Margherita appena sfornata dalle piccole pizzerie al taglio. Donne con lo hijab e le buste della spesa camminano accanto a ragazze in jeans a vita bassa che svelano colorati tatuaggi. Uomini che abbassano la saracinesca di macellerie e frutterie, e poi si tolgono le scarpe prima di entrare a pregare in moschea.  
Camminando per le strade di Tor Pignattara, periferia est di Roma, è evidente che la definizione di «quartiere più multietnico della capitale» è riduttivo. Quella che un tempo era nota per essere «la borgata degli sfrattati» è oggi il cuore islamico della capitale, con il 40 per cento di immigrati. Su 15 mila residenti, 6 mila sono extracomunitari, originari prevalentemente del Bangladesh e del Pakistan. Seguono srilankesi e cinesi, ma la cifra di quest'angolo di Roma è decisamente musulmana. Cinque le moschee ufficiali. Numero che, tuttavia, triplica se si considera la decina di garage adattati a luogo di culto. La maggior parte lavora nel quartiere e abita principalmente in via Marranella - un tempo tristemente famosa per le bande criminali alleate a quella della Magliana - via Casilina e via di Tor Pignattara. Sono arrivati qui grazie al passaparola tra parenti o amici stretti. E vivono compatti, vicini gli uni agli altri.  
«Ma non definiteci ghetto o banlieu, siamo in tanti e abbiamo le nostre abitudini ma rispettiamo quelle degli italiani», sbotta Nure Allam Siddique, più conosciuto come Batchu, bengalese di Dakka, 52 anni, oltre la metà vissuti in Italia, presidente dell'associazione Dhuumcatu. Un centro che si occupa di tutto, dalle pratiche sindacali dei lavoratori alla ricerca di un posto in ospedale per chi ne ha bisogno.  
Ma la concezione di «rispetto» di Batchu è a dir poco singolare. A sentire lui infatti «la chiusura delle cinque moschee per ragioni igienico sanitarie o di abusivismo edilizio è stata una mossa esagerata da parte della polizia municipale. Per due ragioni. Primo, perché Roma è piena di case con abusi edilizi e nessuno le tocca, stanno ancora tutte in piedi. Secondo, perché non si può togliere il diritto a un musulmano di andare in moschea. Per questo io, venerdì scorso sono andato a pregare per protesta davanti al Colosseo».
Carisma ed eloquio accattivante non mancano di certo a Batchu che parla circondato da altri bengalesi incantati dalle sue affermazioni. E fanno cenni di assenso con il capo anche mentre lo sentono affermare che «il terrorismo islamico non esiste. I terroristi sono manovrati dall'occidente che ha interessi economici da difendere. Anche l'Isis è finanziata da ebrei e americani. L'Islam predica la pace, non la guerra». Poi mi stringe la mano e mi congeda.
Non mi sfiora neanche invece - «la mia religione mi consente di toccare la mano solo a mia moglie e a mia madre» - Sheikh Hossain, 40 anni, da 12 a Roma. Ma la sua posizione è chiaramente più moderata rispetto a quella di Batchu. «Per essere accettati nel vostro Paese dobbiamo accettare la vostra legge, e quindi se una moschea non è in regola è giusto che venga chiusa. Si può pregare anche in casa, anche se alla moschea è meglio. A certe usanze della mia terra però non rinuncio. Come vede ho la barba lunga e non mi vesto all'occidentale. Per questo motivo sono stato licenziato da un ristorante vicino piazza Navona. Dicevano che spaventavo i clienti perché sembravo uno dell'Isis. Ma io sono molto onesto, la barba non me la sono tagliata e ora lavoro in un piccolo ristorante qui a Tor Pignattara».
Vive e veste all'occidentale, come i coetanei italiani, Miazi Shahadat, bengalese, 26 anni, da 12 nel nostro Paese, commesso in un negozio di telefonia. «Per un po' sono stato a Bologna e ad Arezzo ma c'era poco lavoro e quindi mi sono trasferito a Roma dove stanno i miei parenti. Mi trovo bene, anche se penso che le cose potrebbero migliorare. Le moschee ad esempio: è giusto chiuderle se non sono in regola, se no bisogna tenerle aperte perché per noi sono importanti. I terroristi islamici, invece, quelli vanno fermati e puniti come qualsiasi altro terrorista». Parla in modo pacato e gentile Miazi, e quando mi saluta si rimette le cuffiette per sentire una canzone dei Red Hot Chili Peppers.  
Grazia Longo

(La Stampa 29ottobre)