venerdì 20 gennaio 2017

La fede e il dubbio: Scorsese fa i conti con il silenzio di Dio




È uscito nei cinema giovedì, gli incassi sono modesti, noi ve lo segnaliamo oggi dal profondo di un cuore laico, razionale, relativista: Silence di Martin Scorsese è un film bellissimo, ed è arduo affermare che sia il film più bello in circolazione solo perché la Cineteca di Bologna sta distribuendo nelle sale il dittico composto da Il monello e da Sherlock jr., due capolavori senza tempo rispettivamente firmati da Charlie Chaplin e Buster Keaton. È un buon momento per andare al cinema.
Silence è il film che Scorsese sognava di fare dai tempi di L'ultima tentazione di Cristo: si risale quindi al 1988, quando un arcivescovo americano gli regalò il romanzo giapponese di Shusaku Endo intitolato, appunto, Silenzio. È la storia dei gesuiti portoghesi vittime delle persecuzioni religiose nel Giappone del primo Seicento: è il cosiddetto "periodo Edo", durante il quale la diffusione del cristianesimo in Giappone - lasciata relativamente libera fino a quel momento - fu brutalmente repressa dal potere politico degli shogun, con l'appoggio decisivo del clero buddhista dalle cui file venivano i ferocissimi inquisitori incaricati di smascherare i contadini convertiti. Scorsese lesse il romanzo proprio in Giappone: nel '90 si recò in quel paese per recitare (nel ruolo dl Van Gogh) in Sogni, film di Akira Kurosawa. Da allora, stando alle interviste recentemente rilasciate (una, bellissima, al padre gesuita Antonio Spadaro, su Civiltà cattolica), non ha pensato ad altro. Avrebbe voluto realizzarlo subito, ma finanziare un film del genere, molto austero e ben poco spettacolare, non è stato facile. Anni fa i protagonisti sarebbero dovuti essere Daniel Day Lewis e Benicio Del Toro. Ci si mise di mezzo anche una causa con Vittorio Cecchi Gori, che nel frattempo aveva acquisito i diritti del romanzo (per sbloccarli, Cecchi Gori è citato fra i produttori) e arrivò nel 2012 a denunciare Scorsese per "inadempienza contrattuale" solo perché il film non si riusciva a fare. È stata una guerra, Scorsese l'ha vinta.
Perché Scorsese si era innamorato dl questa storia? Non è difficile indovinarlo. Basta ripensare agli scrupoli religiosi del personaggio di Harvey Keitel in Mean Streets, o alla crocifissione proletaria in America 1929: sterminateli senza pietà. Non serve evocare L'ultima tentazione o Kundun per capire come la tematica religiosa (verrebbe da dire: inter-religiosa) sia presente nel cinema di Scorsese fin dagli esordi. Il regista ha sempre raccontato - e lo ripete a Civiltà cattolica - di aver cullato, da ragazzo, il sogno di entrare in seminario. È sempre stato affascinato dai sacerdoti e dai gangsters... e dal terreno pericoloso che li separa nelle strade di New York dove è cresciuto. Silence potrebbe sembrare un "semplice" film di ricostruzione storica: questa, invece, è solo l'apparenza (pur nella magnificenza della scenografia Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo). Scorsese si identifica totalmente nel percorso di padre Rodrigues (Andrew Garfield), il giovane gesuita che parte per il Giappone all'affannosa ricerca del suo mentore, padre Ferreira (Liam Neeson),  perduto nei meandri dell'impero e sospetto di apostasia. Nella parabola di padre Rodrigues, e nei suoi rapporti dialettici con i giapponesi che incontra per la via (dal grande inquisitore Inoue al traditore compulsivo Kichijiro), Scorsese sintetizza la difficile missione di portare la fede nel mondo. È facile, sembra dire il film, avere una fede pura, intatta, a suo modo "integralista"; assai più difficile è confrontarla con le sofferenze quotidiane della gente, domandarsi se la propria predicazione fa davvero del bene a chi ti segue o serve solo a soddisfare il tuo ego di apostolo votato al proselitismo.
Neeson, Garfield e Adam Driver, che interpreta l'a1tro giovane gesuita Garupe, sono bravissimi: ma per apprezzare davvero Silence bisognerebbe citare alcuni meravigliosi interpreti giapponesi. Issei Ogata è un inquisitore beffardo ma anche straordinariamente "laico", un avversario formidabile per la dialettica tutto sommato ripetitiva del gesuita; e la prova è tanto più rimarchevole se si pensa che Ogata, in Giappone, è un comico e un presentatore televisivo (come del resto era Takeshi Kitano, prima di diventare un regista-culto). Un po' come se Carlo Conti o Amadeus si rivelassero all'improvviso finissimi interpreti shakespeariani (difficile che accada). Yosuke Kubozuka e il citato Kichijiro, una sorta di Giuda affetto da coazione a ripetere, che tradisce padre Rodrigues almeno quattro o cinque volte lungo il film ma poi torna sempre da lui, fino alla morte, come attratto dalla sua dirittura morale, forse addirittura innamorato della sua coerenza. Mentre uno dei cristiani uccisi dai buddhisti (in modi sempre ferocemente fantasiosi) è il bravissimo regista Shinya Tsukamoto, che per altro si è sempre cimentato come attore in film propri ed altrui: "Per  Scorsese - ha detto - avrei fatto anche la comparsa".
Silence è, per Scorsese, il film della vita. La messinscena di tutte le sue ossessioni. Ma è anche un potente film sull'oggi. Non è certo una consolazione constatare come le religioni secolari abbiano commesso crimini efferati in tutti i luoghi e in tutte le epoche; né può risultare soddisfacente scoprire (per molti sarà così) che il buddhismo non è sempre stato, nella sua storia e nelle sue declinazioni, la religione mite alla quale la figura del Dalai Lama ci ha abituati. Il film è un monito a guardare dentro noi stessi, a capire come la nostra fede può non coincidere con la fede degli altri.
Come dice padre Ferreira a padre Rodrigues, in una delle scene più forti del film, davanti alle atroci sofferenze dei giapponesi perseguitati: prega, ma prega con gli occhi aperti.  

(L'Unità 14 gennaio)