lunedì 27 marzo 2017

DONNE E GIAPPONE

LA PRIMA DONNA che in Giappone ce l`ha fatta davvero ha temuto per una vita di finire dritta in cella. «Mi chiedevo: come si vivrà la dentro? Ci sarà una finestra? Avrò la toilette?».
Yoshiko Shinohara non ha mai fatto nulla, si spera, di male: quantomeno nulla di criminale. Ma la via del successo, per le donne, è lastricata in tutto il mondo di troppe buche, e figuriamoci in un paese dove la condizione femminile è rimasta, per secoli, in fondo a un cratere profondo. No, la molto onorevole ascesa di Yoshiko non è una conseguenza della "womenomics" voluta dal premier conservatore Shinzo Abe: semmai, quella politica l'ha propiziata. Perché a 83 anni, con un miliardo di dollari in banca, la prima billionaire del Sol Levante è un modello per tante giapponesi, e per almeno due buone ragioni. La prima è che la signora ebbe il coraggio di dire addio al marito, sposato, come si usava e spesso si usa ancora, per contratto di famiglia: «Subito dopo il matrimonio capii che sarebbe stato meglio non l'avessi fatto, e che non era la persona giusta» ha confessato alla prestigiosi a Harvard Business Review. La seconda è che è diventata una specie di eroina per essersi lanciata in un'avventura impensabile, all'epoca, anche per un uomo, e che avrebbe potuto, condurla in galera. Yoshiko ha introdotto in Giappone il part time: innescando quella rivoluzione economica di cui hanno beneficiato, anche e soprattutto, le donne, per troppo tempo escluse dal mercato proprio per la difficoltà di sopportare, senza adeguato welfare, i ritmi di lavoro non per niente conosciuti in tutto il mondo come "giapponesi". Il piccolo particolare è che fino agli anni '70 il lavoro a tempo era proibito: motivo per cui Yoshiko ha temuto di finire in carcere, prima che la sua Temp Holdings diventasse un colosso da 57.542 impiegati, di cui 21 mila (ci mancherebbe) part time. L'hanno chiamato "il cielo di bambù": l'equivalente del nostro soffitto di cristallo. Solo che sotto il cielo di bambù di sole se ne vede pochino. La disparità offre cifre, e comportamenti, da paura. Le donne guadagnano il 70% in meno degli uomini. E sono soggette a quelle obbrobriose "molestie da maternità" che costringono tante mamme a mollare: una pratica che neppure la condanna della Corte costituzionale, anno 2014, è riuscita a fermare. Nei ruoli di responsabilità, poi, non esistono: i numeri dell'Organizzazione per lo sviluppo economico parlano di 2,9% dirigenti donna contro il 44,8 della Norvegia, il 20,28 degli Usa (in Italia siamo al 15,71%).
Goldman Sachs ha calcolato che dando alle donne le stesse opportunità degli uomini il Pil del Giappone schizzerebbe 13 punti più in alto, mettendo al lavoro 1 milione e mezzo di persone in più. Perché il problema qui non è tanto la mancanza di opportunità, quanto di manodopera: considerate l'invecchiamento della società, aggiungeteci il tasso di natalità bassissimo, 1,2 invece del 2,1 che servirebbe per tenere la popolazione stabile, ed ecco a voi il 24% dei posti offerti in più rispetto alla domanda reale. Sulla carta, insomma, aprire alle donne sarebbe un affare per tutti. Tant`è che più di un osservatore già maligna che la "Womenomics" sia stata avviata da Abe più per mero calcolo economico, che per un sentimento di pari opportunità. Pettegolezzi. Come quelli che vedrebbero dietro all'ambizioso piano del premier il ruolo decisivo di Akie, la moglie che lo stesso primo ministro ha chiamato "il mio personale partito di opposizione": femminista, anti-nuclearista, perfino un pizzico anti-americanista, o quantomeno critica su quella sorta di occupazione militare Usa che risale all'indomani degli orrori di Hiroshima e Nagasaki. E per carità: non che sia sbagliato. Anche in questo caso, cherchez la femme, ma è la donna trovata che è quella sbagliata. La first lady non c'entra, o c'entra poco.
La signora che ha costretto il Giappone a fare i conti con l'altra metà del cielo si chiama Kathy Matsui, economista di quella Goldman Sachs cosi attenta a fare i conti al governo di Tokyo. Come nella parabola di Yoshiko Shinohara che prima di lanciare il suo business in Estremo Oriente si è fatta le ossa nel Vecchio Occidente (nello specifico Old England), anche nella storia di successo di Kathy c'è un prequel ambientato fuori casa, stavolta però in America. Tornata in patria, e dopo aver vissuto a Salinas, nella California degli immigrati ispanici cantati da John Steinbeck, la signorina parlava più inglese e spagnolo che giapponese: ma ci ha messo poco a farsi capire e farsi strada. Sono stati i suoi studi a imporre il concetto di "womenomics" in Giappone, ed è con un certo senso di orgoglio tutto femminile che oggi Kathy confessa a Japan Times che il suo piano per spezzare quel tetto di bambù l'ha partorito mentre era costretta a casa ad allattare il secondo figlio: "Sarà stata», scherza, «colpa della mia sovrabbondante attività ormonale».
Per i suoi lavori sull'economia al femminile, proprio dieci anni fa il "Wall Street Journal l'ha inserita nelle "10 donne d'Asia". Ma ci sono voluti altri 6 anni perché le sue idee finissero prima nella Strategia di Crescita Nazionale e, nel 2015, in quella Legge per la Promozione del Lavoro Femminile che obbliga le aziende con più di 500 impiegati a inseguire gli obiettivi di uguaglianza di genere. I1 piano di Abe prevede che entro il 2020 le donne in posizione di leadership debbano salire fino al 30%: grazie anche alla creazione di quella rete di protezione del welfare che finora ha costretto il 60% delle mamme, molestie di maternità a parte, a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Nel pacchetto di stimoli da 280 miliardi di dollari c`è infatti anche la creazione di centinaia di migliaia di nuovi asili: oltre a incentivi per le aziende che offrano congedi di maternità più lunghi.
Con che risultati? Difficile fare adesso la tara. Certo è che il Giappone, l'anno scorso, ha sorpassato perfino gli Usa, 66% contro 64%, nella percentuale di lavoratrici: ma il calcolo tiene conto anche del part-time, che per la gioia della miliardaria Shinohara ora conta il 40% dei lavoratori, e peccato che il 70% di quel 40% sia composto proprio da donne. Neppure le pagelle del World Economic Forum sono poi così rassicuranti. Nella classifica del gender gap, Tokyo e al l01esimo di 145 posti, al pari con lo Swaziland. E in quella specialissima classifica del lavoro non pagato, dove il Giappone eccelle per la tragica pratica del karoshi, l`impiego fuori orario, i minuti di lavoro non retribuiti sono 62 per gli uomini, ma per le donne arrivano a 299, praticamente 5 ore. «Perché non basta prevedere solo più asili e più welfare», si corregge adesso Kathy "womenomics" Matsui: Bisogna educare la società ai benefici della diversità di genere e al rispetto reciproco. E bisogna che anche tanti uomini abbiano la forza di ergersi a campioni di questo cambiamento». Ma del cambiamento vero. Altrimenti finisce che ha ragione Maiko Kissaka, la blogger superstar che a Quartz l'ha urlato: «Quando il governo dice che bisogna "creare una società in cui tutte le donne possano brillare" in realtà sta dicendo una cosa soltanto: "Donne, abbiamo bisogno che voi lavoriate di più"».
Stefania Viti

(D la Repubblica 18 marzo 2017)