giovedì 16 marzo 2017

Il benessere psichico si può misurare

Una condizione di benessere soggettivo è intesa dagli psicologi come una combinazione di assenza di emozioni negative, presenza di emozioni positive, soddisfazione per la propria vita e un buon livello di interazione sociale. Ma è il risultato di un'interazione tra più fattori psicologici. Una disamina di questi elementi è stata realizzata dalla professoressa Carol Ryff della University of Wisconsin-Madison, che ha sviluppato anche un questionario per misurare il benessere, chiamato Psychological Well-Being Scales.
La professoressa Ryff li ha individuati in autonomia, padronanza ambientale, crescita personale, relazioni positive con gli altri, scopo nella vita, auto-accettazione.
L'autonomia consiste nel riuscire a regolare il proprio comportamento dall'interno, resistendo alle pressioni sociali che premono verso il conformismo. Saper sfruttare le opportunità che la vita offre e combattere efficacemente le avversità, è invece la caratteristica principale della padronanza ambientale.
Avere un buon senso di crescita personale significa invece sentirsi in un costante processo di miglioramento. Poi ci sono le relazioni positive con gli altri , che si possono raggiungere con l'obiettivo di essere empatici.
Avere un chiaro scopo nella vita vuol dire sentire di muoversi verso una direzione identificabile, delineando una linea tra passato e presente. Infine, non è possibile raggiungere un buon livello di benessere personale se non si giunge a una certa auto-accettazione. Dato che nessuno è o potrà essere perfetto, è necessario accettare il proprio modo di essere.
Ora esiste anche una psicoterapia che mira proprio a quel benessere psicologico a cui tutti vorrebbero arrivare. È la cosiddetta Well-Being Therapy, alla quale è dedicato il libro "Psicoterapia breve per il benessere psicologico" (Raffaello Cortina editore, Milano, 2017), scritto da Giovanni Fava, professore di psicologia clinica all'Università di Bologna e di psichiatria alla University of Buffalo, negli Usa.
Alcuni aspetti di questa psicoterapia sono riscontrabili anche nella classica psicoterapia cognitivo-comportamentale, come l'attenzione verso il controllo ambientale, l'autonomia e l'accettazione di sé. Ma la Well-Being Therapy è più mirata e il terapeuta cerca di inquadrare il paziente all'interno di un contesto più ampio rispetto a quello della semplice diagnosi psichiatrica. «È la cosiddetta macroanalisi - spiega Fava -. Consiste nello stabilire una relazione tra le sindromi cliniche vere e proprie, come uno stato depressivo, e i problemi che possono manifestarsi congiuntamente».
Ma come si svolge la Well-Being Therapy lungo le otto-dodici sedute da cui è composto un ciclo? «Le terapie cognitivo-comportamentali si basano sul fatto che una persona riporta in un diario i momenti e le emozioni di maggiore disagio», dice ancora Fava. «E anche la Well-Being Therapy usa il diario, ma lo fa solo per monitorare i momenti di benessere psicologico. All'inizio, con l'aiuto del terapeuta, la persona scopre cosa la fa stare bene e cosa interrompe questi momenti. Progressivamente, nella fase centrale della psicoterapia, impara a percepire certe situazioni in modo alternativo, e a sviluppare le dimensioni del benessere psicologico. Il diario è sempre lo strumento fondamentale. Nella fase finale della terapia, la persona testa nella realtà certe sue paure, affrontandole con il sostegno della crescita personale avvenuta nel corso della psicoterapia. Scopre cioè che la fiducia nelle proprie possibilità, la capacità di fronteggiare le pressioni sociali, l'accettazione delle proprie qualità positive e negative, l'attenzione al benessere degli altri, possono essere modulate alla luce delle proprie esperienze».
La depressione è stata il primo campo di applicazione clinica della Well-Being Therapy. Il gruppo di ricerca guidato da Giovanni Fava ha dimostrato che le persone con depressione ricorrente potevano essere aiutate a superare la loro condizione patologica in maniera più stabile, e soprattutto a vincere i sintomi che restavano dopo il superamento di una fase depressiva e che predispongono a nuove ricadute.
«Almeno una persona su tre ricade entro un anno - dice Fava - come dimostrano diversi studi. Due sono i maggiori rischi connessi a una ricaduta: la possibile persistenza di sintomi cosiddetti sotto soglia o subclinici, ossia non sempre e necessariamente rilevati durante la visita, ma che tendono a persistere; il numero complessivo di episodi di depressione che una persona ha avuto. Maggiore è questo numero, più probabile è la ricaduta».
Oltre che su chi soffre di depressione, la Well-Being Therapy ha dimostrato di essere efficace in altri disturbi che allontanano il benessere psicologico. «Ad esempio è stata utilizzata per il trattamento della ciclotimia, un disturbo caratterizzato da sintomi depressivi e maniacali lievi, che perdurano almeno due anni», specifica Chiara Rafanelli, professore ordinario di Psicologia clinica presso l'Università di Bologna.
La Well-Being Therapy è stata applicata anche su persone che hanno disturbi fisici, aiutate in un processo di riadattamento alla malattia. «È in corso un trial randomizzato controllato, rivolto alla sintomatologia depressiva e alla demoralizzazione in persone che hanno avuto un primo infarto miocardico» aggiunge Rafanelli. «Quando lo studio sarà concluso verificheremo l'efficacia della Well-Being Therapy rispetto a obiettivi significativi, come il livello di benessere psicologico percepito».
Danilo di Diodoro

(Corriere della sera, 5 marzo 2017)