mercoledì 22 marzo 2017

Un fallimento chiamato Sud Sudan

Qualche volta seguire gli umani nei meandri dei loro comportamenti, delle loro scelte e dei criteri che le ispirano, è compito davvero difficile, forse impossibile. Prendiamo il Sud Sudan. Cinquantatreesimo Paese africano, ultimo nato al mondo, indipendente da nemmeno sei anni, 13 milioni di persone tra le più povere del pianeta. Oggi il Sud Sudan è uno dei più grandi fallimenti della politica internazionale. Dopo un lungo lavorio diplomatico perché diventasse uno Stato a tutti gli effetti staccandosi dal Sudan, ha conosciuto un biennio di pace e poi è precipitato nel gorgo di una spaventosa, ferocissima guerra civile. Le ragioni dei suoi capi sono facilmente comprensibili, anche se meriterebbero tutti un processo per crimini contro l'umanità. Il Sud Sudan siede su immensi giacimenti di petrolio. Costoro sono in sostanza dei signori della guerra e si combattono sulla pelle dei poveri per accaparrarsi il malloppo. Quello che non si capisce è il comportamento dei potenti del mondo.
Adesso, come era logico accadesse, il Paese sta precipitando nella carestia e la gente, ammassata nei campi profughi, comincia a morire di fame. Appelli, richieste di fondi, disperate campagne Onu per salvare i sudsudanesi. Ma il 23 dicembre scorso, quando il Consiglio di sicurezza mise ai voti una risoluzione per imporre al Sud Sudan un embargo sulla vendita di armi e confiscare i miliardi ammassati dai suoi leader all'estero, la risoluzione non passò. Servivano 9 "sì", ce ne furono solo 7. ln 8 si astennero. Tra questi la Russia, la Cina e tre Paesi africani. «Rischiamo di esacerbare gli animi» spiegò l'ambasciatore russo.
Pietro Veronese

(Il Venerdì 10 marzo)