giovedì 6 aprile 2017

COL VELO SUL PONTE, NOI DONNE ANTI-JIHAD

LONDRA. Uno sguardo dal ponte. Con il velo islamico in testa e la fratellanza nel cuore: la risposta più potente al terrore che ha ferito Londra. Cento donne musulmane si tengono per mano su quello stesso Westminster Bridge su cui la settimana scorsa un fanatico ispirato dalla jihad ha falciato pedoni, ucciso un poliziotto e seminato il panico. Il medesimo ponte dove la foto di una donna velata che guarda il telefonino, scattata il giorno dopo l'attentato, ha scatenato un equivoco a base di discriminazione, equiparando automaticamente l'Islam all'indifferenza, anche se lei era impaurita e sconvolta. «Un attacco contro questa città è un attacco contro di me, contro tutti noi, contro l'Islam, perché l'Islam condanna ogni tipo di violenza e questa è un abominio», dice Sarah Waseem, 57 anni, infermiera del Surrey. «Sono qui perché è importante dimostrare solidarietà con i valori che ci sono cari, i principi della pluralità, della diversità e della democrazia», afferma Ayesha Malik, 34 anni, insegnante londinese. «Penso alle tante persone che si sono ritrovate vittime di questa tragedia e mi viene da piangere», si commuove Fariha Khan, 40 anni, medico in un ospedale dei sobborghi. Organizzata da Women's March of London, un'associazione femminista, e dalla Islamic Society of Britain, la catena umana sul polite diventato teatro dell'attentato non ha distribuito volantini, emesso proclami, lanciato slogan. Si è limitata a convocare cento donne con il velo, che si sono date appuntamento per una manifestazione silenziosa, per lo più vestite di azzurro: il colore della speranza per i musulmani. «La reazione è stata incredibile, in questo modo la gente respinge l'odio e il razzismo», commenta Julie Siddiqui, una delle promotrici dell'evento. Le organizzatrici non hanno reclamizzato l'iniziativa sui social network, ma soltanto con il passaparola. Cento donne con il velo, e qualcuna senza, abbracciate una all'altra per dire: non passerete, non ci dividerete. Un semplice, muto, determinato sguardo dal ponte. Così si battono terrorismo e discriminazione.
Enrico Franceschini

(la Repubblica 28 marzo)

Le coraggiose che scuotono le coscienze dei musulmani
Una catena umana importante e commovente, quella di Londra: fatta da donne che vedono come un tradimento e un insulto alla loro cultura e alla loro religione l'attentato commesso in nome dell'Islam. Dignitose, hanno in volto l'espressione del lutto, il rifiuto della barbarie, la ripulsa verso ciò che oggi umilia e minaccia tutti i musulmani.
Le reazioni più significative, nel mondo arabo, arrivano sempre dalle donne. Come le madri e le spose, prime a scendere in piazza in Egitto e in Tunisia durante le "primavere arabe".
La loro non è una solidarietà simbolica alle vittime del 22 marzo: ma un modo per dire al popolo britannico che confondere Islam e terrorismo è un errore e un crimine, che non bisogna ascoltare quei politici che lo insinuano, che bisogna distinguere una religione monoteista da un'organizzazione criminale globale. Il fatto che tutte quelle donne avessero un foulard in testa è segno di un'appartenenza all'Islam tradizionale, che condanna l'omicidio e il suicidio. Ma la manifestazione silenziosa e pacifica sul ponte di Westminster, dove il terrorista ha ucciso degli innocenti, è diretta anche al mondo arabo perché, nonostante molti inorridiscano davanti agli atti commessi dai jihadisti, pochi lo manifestano condannando pubblicamente quei crimini. Il loro silenzio li fa passare per potenziali sostenitori di atti terroristici: ed è falso. Intanto sempre più attentati si commettono in Europa in nome dell'Islam. In Belgio, a Parigi o a Londra: i musulmani dovrebbero manifestare pubblicamente la loro condanna. Tacendo lasciano pensare che quella violenza è parte dell'Islam, entrata in modo brutale e arbitrario in Europa. Per questo bisogna strappare l'Islam, la sua cultura, la sua morale e i suoi valori dalle grinfie del terrorismo dello Stato islamico.
Perfino certi musulmani che vivono in Europa pensano che i terroristi siano fatalmente islamici. Il padre di Zyed Ben Belgacem, il francese di origine tunisina che il 18 marzo ha assalito una soldatessa all'aeroporto di Orly, ha detto: «Mio figlio non è mai stato un terrorista. Non pregava: beveva. Colpa dell'alcol e della cannabis». Eppure colpito ha gridato: «muoio in nome di Allah». In buona fede quel padre pensa che un terrorista debba essere un musulmano praticante. Non capisce come suo figlio, che sprecava la propria vita e non rispettava nulla, possa essere morto in nome di un Islam che non ha niente a che vedere con la religione e la cultura dei musulmani. L'atto magnifico di quelle donne sul ponte di Westminster è il simbolo della loro volontà di essere parte della lotta comune e determinata contro il terrorismo che non fa differenza fra le sue vittime. (traduzione di Elda Volterrani)
TAHAR BEN JELLOUN

(la Repubblica 28 marzo)