giovedì 20 aprile 2017

COME DISFARSI BELLAMENTE DI GESÙ

Mi sembra che noi cristiani, nella nostra bimillenaria storia, siamo stati molto abili nell'escogitare delle scappatoie da Gesù, cioè abbiamo elaborato delle strade (con tanto di giustificazione teologica!) per continuare a dirci cristiani senza scomodarci troppo per esserlo realmente.
A scanso di equivoci, vorrei subito dire che un po' tutti, nelle più varie esperienze cristiane, siamo responsabili di queste «fughe» più o meno mascherate. Riferirci verbalmente a Gesù o avere spesso il suo nome sulle labbra non significa affatto che noi siamo suoi discepoli e che prendiamo sul serio la proposta di vita che Dio ci fa giungere attraverso Gesù.
Fuggire da Gesù, per noi cristiani significa fuggire da Dio non perché Gesù sia Dio, ma perché egli è colui nella cui storia e nel cui messaggio si «incarna» Dio, cioè si rendono visibili in forma umana l'amore e la volontà di Dio. Gesù e il reale «indicatore» di Dio e, per questo, costituisce la norma, lo stile normativo di vita per ciascuno di noi. «Non bisogna mai dimenticare che Gesù addita, oltre se stesso, a un mistero carico di senso e di redenzione (che egli chiama Padre, «più grande di me»: GV 14,28). In altre parole: per lui il contenuto del suo messaggio e più importante di lui stesso» (F.J. Nocke). La «grandezza» incommensurabile di Gesù per noi cristiani/e consiste proprio nel fatto che egli, mentre incarna per noi la volontà di Dio, addita sempre oltre se stesso. Gesù vuole che Dio sia Dio. Gesù sa bene che Uno solo, cioè Dio, è il buono, per dirla con l'evangelo di Matteo (l9,17).
Trovarci di fronte a Gesù significa essere posti di fronte all'esigenza di scegliere, decidere in quale direzione orientare la propria vita. Gesù non chiede a noi un'adesione intellettuale a qualche teoria religiosa, a qualche dogma, a qualche «verità» più o meno sublime Gesù è certamente un maestro di verità, ma molto di più un profeta di vita; anzi, per noi cristiani, il «profeta per eccellenza» che ci chiede di dare «carne» alla verità, di farla vedere nei fatti.
Gesù, davanti alla volontà di Dio (che anch'egli scopriva gradualmente) non è fuggito, non ha chiuso gli occhi, non ha preso scorciatoie. E si noti: la voglia di fuggire, come ci testimoniano gli evangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca), gli è venuta più d'una volta. Egli, in sostanza, non ha imitato il profeta Giona, il grande fuggiasco di cui ci parlano in una stupenda novella le scritture ebraiche.

La prima maniera di fuggire
La nostra prima maniera di «neutralizzare» la proposta di Gesù è davvero diffusissima: possiamo chiamarla annacquamento. Si tratta di una «operazione» che noi cristiani conosciamo molto bene. Per difenderci dalla radicalità dell'evangelo, noi facciamo un compromesso tra la «strada» di Gesù e le logiche vincenti di questa società. I modi con cui tale compromesso avviene sono pressoché infiniti e le «scuse» che noi portiamo lo sono altrettanto.
Sta di fatto che su questa strada noi cristiani, nel corso dei secoli, abbiamo addomesticato l'evangelo e lo abbiamo addirittura fatto combaciare o coincidere con i nostri interessi meno nobili. Dal Vangelo abbiamo tratto persino la giustificazione dei roghi per «streghe» ed «eretici»: come rami secchi non erano forse da gettare nel fuoco, come scrive Giovanni? Ma l'addomesticamento più grave è quello che consumiamo ogni giorno, un po' tutti, sul terreno dello stile di vita, sul terreno della fraternità, lasciandoci prendere dalla pigrizia, dalla rassegnazione o dalla sfiducia.
Non si tratta di metterci in testa di essere dei «perfetti cristiani» o dei santi: Dio ci liberi da simili presunzioni. Del resto i cosiddetti «santi» ben spesso non sono altro che quei cristiani che hanno reso dei grandi servigi all'istituzione ecclesiastica e le hanno dato lustro e credibilità. Si tratta, molto più semplicemente, di accettare ancora e sempre, ogni giorno, la proposta di Gesù senza difenderci da essa, di lasciarci regalare la gioia e la speranza che solo Dio può donarci. Si tratta di restare in cammino, di riprenderlo dopo le nostre «fermate», di fare affidamento su Dio che è più grande del nostro cuore.

Fuga numero due
Ci sono anche vie più «teologiche» per fuggire dalla proposta che Dio ci fa giungere attraverso Gesù. Ci si può appigliare a quelle scritture cristiane, come l'evangelo secondo Giovanni, che possono prestare il fianco a interpretazioni divinizzanti di Gesù. Probabilmente la comunità che sta alla base dell'evangelo secondo Giovanni in qualche fase della sua storia ha formulato una comprensione di Gesù in termini divini o quasi divini. Il testo ne riporta tracce evidenti. Ma, soprattutto, può essere stata l'interpretazione successiva che ha sempre più divinizzato Gesù.
E così si è trovata un'altra strada per evitare lo «scontro» con la proposta del nazareno. Egli, per molti cristiani, venne a configurarsi come un essere sospeso tra cielo e terra, sempre meno toccato e immerso nella condizione dei mortali. Si noti: questa maniera di vedere Gesù, di riferirsi a lui (cioè questa cristologia) non negava affatto che in Gesù fosse presente l'elemento corporeo, ma sottolineava talmente la sua «divinità» da sottovalutare il peso reale dell'umanità. Gesù, progressivamente, si configurò sempre di più (per coloro che si rifacevano a questa prospettiva) come un essere celestiale che affrontava le prove della vita «sicuro come un Dio», senza essere per nulla o quasi toccato dalle umane incertezze e debolezze.
La «carne» di Gesù è divina, potremmo dire!
Ovviamente, davanti ad una comparsa che si riduce ad essere una «divinità rivestita di carne umana», tutto diventa glorioso. Anche la passione evidenzia (in Giovanni a differenza dei sinottici) un Gesù che affronta impavido i tormenti e la morte.
Ma, soprattutto, egli abita la terra con la forza e la luce di un essere divino. Per lui, essere divino travestito da uomo, diventa tutto facile Quale prova lo può turbare? Quale «tentazione» lo può deviate? Insomma, sollevare Gesù in cielo e farne un essere divino, può rappresentare un'altra elegante maniera di non confrontarci seriamente con lui. Noi siamo comuni mortali: che cosa può dirci la vita di uno che solo apparentemente esperimentava la nostra debolezza perché era subito coperta e sollevata dalla potenza divina?
Forse proprio questo elemento di divinizzazione di Gesù, portò successivamente ad alcune prese di posizione che restituissero a Gesù la sua umanità reale. Per dire che in lui Dio aveva operato in modo specialissimo si finì - almeno in alcune interpretazioni che trovano già appiglio in alcune scritture cristiane (che spesso chiamiamo Nuovo Testamento) - col fare di Gesù una vera e propria divinità.
Forse è necessario ricondurci alla vicenda storica, terrena di Gesù. Egli fu davvero esposto come noi alla prova e dovette scegliere se decidersi per Dio o per il proprio tornaconto. Certo, in lui Dio agì in modo unico per noi cristiani; a lui Dio affidò una «missione» tutta particolare, singolare. Non possiamo mai dimenticare questo fatto che pone Gesù come mediatore unico ed insostituibile tra noi e Dio. Ma ricondurre Gesù alla sua esperienza di «carne fragile» significa riscoprire in lui la gioia e la fatica della fede. Egli è il primo credente della nostra carovana! Egli sa che cosa vuol dire cimentarsi con le scelte della vita. La sua non fu una passeggiata di un Dio travestito di panni umani, ma fu l'esistenza di un uomo che si affidò interamente all'azione di Dio, cercando tra luci e tenebre, esattamente come ciascuno di noi.
L'azione di Dio non lo ha sottratto alla terra, ma lo ha reso fedele al Padre, suo e nostro, proprio in questa terra.
La sequela di Gesù non può concretizzarsi «scappando dalla terra», cioè rifugiandoci in una religione celestiale, spiritualista. Qui, oggi, nelle situazioni concrete, Dio ci dà la forza di seguire Gesù. In questo senso mi sembra che dobbiamo appassionatamente amare il nostro tempo, che pure e così carico di negatività e di ambiguità d'ogni genere.

Gesù ricondotto nel tempio
La terza scappatoia da Gesù mi sembra altrettanto sottile ed allettante. Eccola in sostanza: Gesù è stato un uomo che ha vissuto la sua fedeltà a Dio nello spazio aperto del mondo, nelle relazioni di ogni giorno. Diremmo che in lui non si trovano tracce sacerdotali. E, per usare un linguaggio di oggi, un laico. Ma le cose lentamente cambiano già - così sembra - fin da alcune concezioni presenti in taluni scritti cristiani: «Ormai la morte di Cristo dal Calvario, in luogo dissacrato, è stata trasferita dentro il recinto del tempio. Il profeta scomodo, giustiziato da un complotto di malfattori, diventa la vittima di onore che sale accetta a Dio per i peccati del popolo, del mondo intero, ed è in grado di sancire una nuova alleanza, un nuovo stato di amicizia, di collaborazione tra gli uomini e Dio.
I sacrifici del tempio con la morte di Cristo erano stati aboliti, e ora la sua morte appare come un sacrificio di espiazione e di propiziazione» (Ortensio da Spinetoli). Una certa interpretazione della Lettera agli ebrei (che comunque introduce per Gesù il vocabolario sacerdotale e ne fa il sommo sacerdote) ha favorito questa operazione ed ha ricondotto Gesù nel santuario, cioè ha fatto di lui un sacerdote. Che colossale travisamento!
«Questo trasferimento postumo e indebito di Gesù nella categoria sacerdotale con una dimenticanza grave ed incomprensibile del Cristo della storia è il presupposto per l'instaurazione del sacerdozio cristiano» (Ortensio da Spinetoli, Chiesa del futuro chiesa delle origini, pag. 117).
Su questa onda di riflessione, la sequela di Gesù assunse come prevalente la dimensione sacrale, del tempio, del culto, dei sacramenti. Ciò avvenne troppo spesso. Da profeta itinerante Gesù venne cambiato in sacerdote.
Ancora una volta si tratta di capire bene: Gesù era un uomo di preghiera, di adorazione, di benedizione a Dio. Gesù non disdegnò nemmeno di recarsi al tempio e di frequentare le sinagoghe, ma egli non può essere «addomesticato» come un addetto al culto. Gesù pregò Dio con le preghiere del suo popolo, il suo primo culto era vivere al cospetto del Padre l'esistenza profana, laica di ogni giorno.
Per noi cogliere questa dimensione profetica quotidiana della vita di Gesù non significa abbandonare la preghiera (sarebbe un errore tragico!), ma sapere che il nostro culto a Dio va vissuto ogni giorno nelle vie del mondo. Allora avrà senso il nostro trovarci in comunità a celebrare la lode del Signore, ad ascoltare la Sua Parola. La lode dei cuori e delle labbra deve accompagnare il culto della vita. Non si può separare o disgiungere ciò che nella vita Gesù di Nazareth fu un tutt'uno.
Amiamo questa nostra vita quotidiana e mettiamoci il cuore per rendere il vero culto a Dio. Nello stesso tempo amiamo intensamente i momenti comunitari che ci aiutano a «ricordare» Dio, il Suo nome, il suo amore!

Franco Barbero (in "La bestia che seduce", pag. 53-58,
Bra 1980)