domenica 30 aprile 2017

RIFUGGIAMO DAL SILENZIO PERCHÉ RIFUGGIAMO DA NOI STESSI

Un amico mi ha chiesto: tu, che tutto sai degli animali, dimmi: qual è il re del deserto?». «Il leone», ho risposto. «No», ha detto, «è il silenzio che domina tutto: e anche della bellezza è il sovrano, e del dolore è il religioso custode». Mi ha suggerito di riflettere e così faccio. Oggi ogni evento si veste di clamore, con poco rispetto della persona coinvolta: pianti, grida, manifestazioni di dolore, di disperazione, diventano spettacolo. La sfera intima della persona sembra dover diventare priva di ogni difesa, la sacralità del sé privata di ogni senso. Applausi dove il dolore chiama silenzio, e curiosità che, da veste dell'intelligenza, sconfina nella possibile morbosità. Dove il silenzio, da preziosità per la comprensione, lascia spazio al denaro per la ricchezza di pochi, e la povertà allo sperdimento e allo scomparire del pudore di molti. Che fare? Che dire?
Giorgio Galletta
giorgiogalletta@virgilio.it


FUGGIAMO DAL SILENZIO perché fuggiamo da noi stessi, allo scopo di evitare l'incontro che più ci inquieta, il contatto con quello sconosciuto che preferiamo non conoscere, anche se porta il nostro nome, i tratti del nostro volto, i moti della nostra anima, la sua luce, le sue ombre. Abbiamo paura che un attimo di silenzio ci costringa alla "ri-flessione" che, come dice la parola, chiede ci si pieghi su di noi per sapere, almeno di sfuggita, chi siamo, che volto abbiamo, che pensieri ci attraversano, che sentimenti ci inquietano. No. È troppo doloroso questo incontro, meglio perdersi nel rumore del mondo, dove non si corre il rischio di trovare un posto silenzioso che non sia inondato di immagini che rinviano ad altre immagini, o di voci che rimandano ad altre voci, che non nascono da quello sfondo che è il silenzio, perché sono loro lo sfondo. Il rumore del mondo è così pervasivo che più non abbiamo la possibilità di non ascoltare e di non vedere, per cui i nostri organi di senso sono diventati gli organi della nostra illibertà, perché ciascuno è massicciamente rifornito delle stesse immagini e delle stesse parole, al punto che, anche chi fosse tentato da un piccolo accenno di introversione, troverebbe, in fondo alla propria anima, null'altro che le immagini e le voci di cui è stato rifornito.
Se gli antichi Greci avevano individuato nella parola il tratto distintivo dell'uomo, da loro definito: "l'animale che ha il linguaggio", che ne è di questa sua specifica natura se la parola che egli pronuncia non è che una variante della parola che ha sentito. Per cui, come scrive Günther Anders, il risultato è: "Un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa", in quel monologo collettivo, che noi chiamiamo "comunicazione" o "partecipazione", dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le stesse cose che potrebbe dire, e chi parla dice le identiche cose che da chiunque può ascoltare.
Non siamo più in grado di parlare in prima persona e anche se riempiamo la "rete" di immagini e di parole, entusiasti di quel mezzo che ci toglie dalla solitudine e dal silenzio, non illudiamoci. Per effetto della sua espansività e della nostra massiccia partecipazione, la rete non è più un "mezzo" che ciascuno di noi può impiegare per le finalità che sceglie, ma diventa ogni giorno di più il "mondo" che non ci concede altra libertà se non quella di prendervi parte o di starcene in disparte. Ma è davvero possibile starsene in disparte se la "realtà" del mondo ha già da tempo ceduto il posto alla sua versione "telecomunicata"?
Radio e televisione hanno terrore del silenzio, al punto che le parole si rincorrono con una velocità tale che molto spesso non si riesce neppure più a capirle. Parole continuamente parlate ai telefonini, con le orecchie tappate da dispositivi sempre pronti a sentir musica e parole. Discoteche dove il volume della musica sembra fatto apposta per giustificare chi non ha niente da dire, anche se si sforza. Imbarazzo nel "minuto di silenzio" dove non si sa dove appoggiare lo sguardo e mettere le mani. Persino ai funerali, dove il nostro silenzio potrebbe rispettosamente accompagnare il silenzio del defunto, assistiamo a uno sbatacchiare di mani, quasi per esorcizzare lo spettacolo della morte che è l'eterno silenzio.
Naturalmente quando parliamo non ascoltiamo l`altro senza sopprimere la sua irriducibile alterità. E la stessa cosa facciamo con noi quando, invece di ascoltare l'altra parte di noi stessi che si fa sentire solo nel silenzio, la sopprimiamo con tutte le parole con cui ci descriviamo, nel tentativo mai dismesso di rappresentarci davanti agli altri e a noi stessi, in quell'inconsapevole menzogna di chi si descrive in quel certo modo, il più delle volte gratificante, perché non conosce e non vuol conoscere se stesso.
Umberto Galimberti

(D la Repubblica, 15 aprile)