lunedì 24 aprile 2017

"Siamo tutti fratelli, non cambieremo"

TANTA. Gli operai sono al lavoro vicino alla Natività, a fianco dell'Annunciazione. Raccolgono i pezzi di legno dei banchi, spazzano via i vetri dal pavimento striato di sangue, sotto la Via Crucis. Evitano di guardare i frammenti di materia umana, ancora sparsi sulla colonna annerita dalla bomba, vicino alla Fuga in Egitto. Persino sul soffitto, una quarantina di metri più in alto, sull'intonaco lesionato si vedono tracce scure e qualche ciuffo di capelli, che lo sguardo tollera a malapena. Tre uomini con martelli e cacciavite rimettono al suo posto la massiccia porta laterale, spalancata dalla forza dell'esplosione. I lavori vanno avanti, ma per un po' la chiesa di San Giorgio non vedrà fedeli in preghiera: la cerimonia funebre dei 28 morti di Tanta dovrà essere tenuta nella cappella vicina e nel cortile, dove altri operai stanno allestendo un fondale di tessuto.
All'ingresso, fra i banchi spaccati, nella polvere, è rimasta una palma con le macchie già sbiadite del sangue versato dai copti d' Egitto. L'odore d'incenso sta già cancellando quello del sangue e dell'esplosivo. La gente della chiesa lavora pacata, con lo sguardo fisso sull'impegno da portare avanti, la bocca stretta. Fuori, una piccola folla attende l'apertura del cancello. Due ragazzi singhiozzano davanti alla porta metallica dov'è appesa la foto di Fedhi Ramses, universitario, che non finirà mai gli studi. Un prete ortodosso barbuto passa rapido, con gli occhi rossi. No, non vuole parlare.
L'agenzia Amaq, organo del sedicente Stato islamico, ha rivendicato gli attacchi e garantito che non sono finiti. Gli attentati ripetuti sullo stesso obiettivo sono una tattica qaedista ben nota, ma nella comunità cristiana di Tanta pochi sembrano preoccuparsene. «In fondo morire in chiesa, per chi ha fede, è il modo più piacevole di tutti», dice Victor Fathy, padrone della piccola agenzia di pubblicità e stampa Abosehen, proprio di fronte a San Giorgio. Indica una foto sullo schermo del suo computer: davanti all'altare, il gruppo dei diaconi vestiti di tuniche bianche con ornamenti rossi: «Questo era Suleiman, questo Abdul-Salib, questo era Chebbi… tutti amici miei, non ci sono più. Ma sono andati in un mondo migliore del nostro». Victor era in chiesa, al momento dell'attentato, ha visto il sangue. Si chiede come mai il terrorista suicida sia riuscito a entrare con i fedeli, ma non se la prende con nessuno. «La polizia fa quello che può, ma forse non basta. Mi chiedete se quello che è successo può provocare odio fra noi cristiani e i musulmani? No, i terroristi non riusciranno a farci odiare. Ho ricevuto tantissime chiamate di solidarietà da amici islamici. Siamo tutti fratelli».
Quando dalla vicina moschea Said el Badawi si leva il canto del muezzin che invita alla preghiera, fra i cristiani nessuno sembra farci caso. E a cercare un punto di ritrovo della comunità copta, si ricevono solo sguardi interrogativi. «In questa zona c'è il caffè Sport. Ma ci vanno tutti. Non ci sono locali solo cristiani. Le scuole? Ma sono miste, ovviamente, ci sono ragazzi di tutte le fedi. Come può essere altrimenti?», chiede un fedele di San Giorgio. «Appena ho saputo della bomba sono corso in ospedale», dice Said, che ha sul capo la cuffia bianca da preghiera degli islamici. «Volevo donare il sangue, ma non mi hanno voluto fare il prelievo perché ho 67 anni». Per lui «un'azione come quella degli attentatori non ha nessun senso. E il Corano vieta esplicitamente di uccidere bambini. Questi assassini sono legati ai Fratelli musulmani, ne sono sicuro. Non sono nemmeno in grado di capire che siamo tutti egiziani».
Dopo gli attentati di domenica, con 45 morti fra Tanta e Alessandria, il presidente Abdel Fattah Al Sissi ha proclamato tre mesi di stato di emergenza e ha schierato le forze armate sulle "strutture sensibili". La paura è che i nuclei jihadisti del Sinai, già in passato protagonisti di assalti sanguinosi, abbiano deciso di considerare obiettivo privilegiato la minoranza copta, otto milioni di cristiani vissuti finora in armonia con la maggioranza di fede islamica.
Davanti alla facciata della chiesa ferita qualche poliziotto in uniforme, molti agenti in borghese e soldati in grigioverde con la mitraglietta si guardano intorno. Uno di loro ha disteso nell'angolo del marciapiede un tappetino da preghiera. Si inginocchia, abbassa il capo, si alza, ricomincia. Nel cortile Mohaib, ex direttore di ufficio postale, garantisce che «la sicurezza era sufficiente». Poi mostra un breve video del nipotino Gabriel, che canta il Kyrie Eleison. Il bambino vive a Dubai con i genitori, «e anche lì i cristiani hanno le loro chiese, nessuno li disturba». Ma che sarà domani dei fedeli minacciati? Per ora l' unica certezza è che papa Francesco non li ha abbandonati: «Il viaggio del pontefice in Egitto, il 28 e 29 aprile, si farà», fanno sapere dalla Santa Sede. Davanti a San Giorgio un religioso dell'università Al Azhar ribadisce alle telecamere locali quello che ha già garantito il grande imam Ahmed Al Tayyib: per papa Bergoglio non ci sono pericoli.
Nei vicoli stretti del quartiere, le risa dei bambini rimbalzano da un balcone all'altro. Dalle finestre si affacciano immagini del Sacro cuore di Cristo. Una giovane con il crocifisso al collo e il fidanzato per mano prova a raccontare i suoi sentimenti: «Abbiamo perso tanti amici, ora non ci sono più». Poi la voce le si rompe, si affacciano le lacrime, la ragazza va via. Sulla porta di una botteguccia senza finestre, una corona di luci intermittenti da albero di Natale incornicia un ritratto di Maria vergine. «Non avevamo mai avuto problemi con i musulmani», dice Maikel, il titolare del negozio. «Ma questi non sono musulmani, sono fanatici, sono Isis». E per l' avvenire? Può succedere qualcosa? «No. Non abbiamo paura. Il nostro futuro è nelle mani di Dio».
Giampaolo Cadalanu

(la Repubblica 12 aprile)