venerdì 26 maggio 2017

Del buon uso delle crisi

Agli occhi angosciati del popolo ebraico, l'esilio in Babilonia - cui fu costretta buona parte di esso attorno a1l'anno 587 prima dell'era volgare - dovette apparire, e, in effetti fu, una cesura straordinaria della sua storia. Un evento epocale che comportò fra l'altro una radicale messa in discussione del suo rapporto con il Dio dei suoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. Gli avvenimenti drammatici si erano succeduti a raffica, dalla resa di Gerusalemme - città santa e ricettacolo della promessa divina - all'abbattimento del sontuoso tempio edificato da re Salomone, fino alla deportazione forzata degli ultimi successori di re Davide, con una veemenza tale da incrinare nel profondo l'immaginario collettivo di Israele. Va contestualizzata in quella stagione delicata e complessa la predicazione di Geremia, profeta sofferente per antonomasia: cardine della quale è, da un lato, la sottolineatura della necessità di un'alleanza nuova e finalmente eterna fra Dio e il suo popolo (Ger 31, 31-34), e dall'altro l'annuncio scandaloso secondo cui il tempo della cattività e della diaspora sono interpretabili - a dispetto di ogni apparenza - come occasioni reali di salvezza.
Ecco il significato, strategico, della lettera che egli invia ai compatrioti correligionari tratti prigionieri a Babilonia (Ger 29, 1-14), dal contenuto paradossale, che rilegge l'esilio come una sorta di esodo alla rovescia, punto di partenza per un diverso inizio: contro le sicurezze improprie di un passato glorioso ma già irrimediabilmente trascorso, Israele potrà riscoprire le proprie radici e il senso autentico della propria convocazione fra le genti - proclama controcorrente Geremia - solo nella dispersione, in mezzo ai pagani, nel cuore di un paese straniero e tradizionale irriducibile suo nemico. Agli abitanti di Gerusalemme, (comprensibilmente) affannati a salvare il salvabile dagli attacchi degli invasori, il profeta annuncia dunque che chi intende conservare tutto rischia di perdere anche se stesso, mentre chi sarà disponibile a perdere ogni bene ora riavrà i suoi giorni e anzi li conquisterà come preda di guerra (la vita come bottino è tema ricorrente in Geremia, cfr. 21, 9; 38, 2; 39, 18; 45, 5). Elie Wiesel riassumerà così quella lettera: "Siccome siete nella Diaspora, fate qualcosa per darle significato. Altrimenti rischierete la disperazione, e la disperazione non ha posto nella storia ebraica" (da Cinque figure bibliche).
Rileggere le vicende degli ebrei esiliati in quel tragico frangente sarebbe oggi importante per il nostro continente, che sta faticosamente cercando di far fronte a un esodo - non a caso definito di prassi giornalisticamente biblico - di persone in fuga da terre segnate dalle guerre e dalla scarsità di cibo e/o di speranza. Sarebbe utile, in particolare, fare qualcosa per dare significato a quanto sta accadendo. Se conoscessimo la Bibbia, e non la conosciamo, mettere a fuoco la lettera di Geremia ci aiuterebbe a trarne un insegnamento per nulla scontato: ci sono momenti, nella storia, in cui bisogna attrezzarsi per cogliere l'occasione che si presenta, e bisogna farlo con il dovuto coraggio, senza alimentare la comprensibile paura del nuovo che caratterizza gli esseri umani, e con la dovuta capacità di visione lunga. Uno spostamento di genti così massiccio come quello cui stiamo assistendo, infatti, non può essere letto con la lente minuscola di qualche mese o qualche anno, ma con un cannocchiale accurato, che ci consenta di vedere lontano. Di capire che una simile immissione di giovani desiderosi di rifarsi una vita in Europa non rappresenta solo un problema nell'immediato periodo, ma un'autentica benedizione, in prospettiva. Questo dovrebbe dire la politica europea, se ne esistesse una, invece di attardarsi nel macabro rituale del ripristino di illusori muri di contenimento, nella riscoperta delle frontiere statali e soprattutto nei nazionalismi identitari che tanto male hanno portato al nostro continente. Dovrebbe dire che tutto sta in come ci rapporteremo a questo kairòs, a questa crisi: perché in mancanza di maestri, nella società in cui viviamo, sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci a entrare nell'altra dimensione, nella profondità che dà senso alla vita.
La crisi questa crisi, andrebbe  colta come una sorta di rito di passaggio, così da svolgere un insostituibile ruolo pedagogico: facendoci uscire dal consueto, dal rassicurante e dal ripetitivo, obbligandoci a prendere coscienza della realtà e a uscire dalle illusioni, spingendoci a una  lettura sincera e, se necessario, impietosa di noi stessi e dei margini sociali, ecclesiali, economici, etici che ci eravamo dati. E se è vero che ogni crisi è una crisi di identità, questa vorremmo fosse un appello a ripensare noi stessi, le nostre società, le nostre chiese.

(QOL, 179/180)