lunedì 8 maggio 2017

“I campi per i rifugiati sono lager”

ROMA. «I campi per i rifugiati, tanti, sono campi di concentramento per la folla di gente lasciata lì: i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti da soli questo peso». Non cade a caso il duro paragone che Francesco ha proposto ieri durante l'omelia pronunciata in gran parte a braccio nella Basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina, durante la veglia di preghiera promossa dalla Comunità di Sant'Egidio in memoria dei nuovi martiri del XX e XXI secolo. Le sue parole, infatti, muovono da una continua attenzione per gli ultimi, per coloro che, costretti a lasciare i propri Paesi per guerre e violenze, trovano spesso condizioni di vita non migliori: «Gli accordi internazionali sembrano più importanti dei diritti umani», ha denunciato Francesco. Dopo il viaggio a Lampedusa a inizio pontificato, Francesco ha programmato più visite in diversi centri di accoglienza - un anno fa anche all'isola di Lesbo – spesso guidato in queste "puntate" dalla stessa Comunità di Sant'Egidio, oggi più che mai suo punto di riferimento a Roma nella promozione di una politica di accoglienza concreta e fattiva. Fra l'altro, molti dei profughi che Bergoglio ha voluto far arrivare a Roma vivono oggi in una casa d'accoglienza della Comunità, nel cuore di Trastevere.
Atteso sull'Isola Tiberina dal fondatore di Sant'Egidio Andrea Riccardi e dal presidente Marco Impagliazzo, Francesco ha dimostrato con le sue parole quanto sia sterile una memoria dei martiri fine a se stessa, se questa cioè non diventa operosità nel presente: «Respingere i migranti e non fare figli si chiama suicidio», ha detto. E ancora: «Pensiamo alla crudeltà che oggi si accanisce» contro di loro, ha detto. E siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio». Mentre «se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti».
Nel luogo che Giovanni Paolo II, dopo il Giubileo del 2000, scelse come memoriale dei nuovi e antichi martiri, dove la testimonianza dei cristiani uccisi in odio alla fede nei secoli scorsi si intreccia con quella dei perseguitati dalle ideologie del '900 o dalle più recenti follie estremiste, Francesco è arrivato con un dono speciale: l'invito ad aggiungere «un'icona di più in questa chiesa», l'icona di una donna di cui non ricordava il nome, anche se lei - ha detto – «ci guarda dal cielo». Francesco si trovava a Lesbo. Lì, ha raccontato, trovò «un uomo trentenne, tre bambini, mi ha guardato e mi ha detto: "Padre, io sono musulmano, mia moglie era cristiana e nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la regione e hanno visto lei col crocifisso e hanno chiesto di buttarlo giù. Lei non lo ha fatto: l'hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto". Questa è l'icona, che porto oggi come regalo qui», ha detto ancora il Papa con un filo di voce. «Non so se quell'uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove. Non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento. So però che quest'uomo non aveva rancore, anche lui musulmano aveva questa croce del dolore portata senza rancore, si rifugiava nell'amore della moglie graziata dal martirio».
Paolo Rodari

(la Repubblica 23 aprile)