lunedì 15 maggio 2017

Tra luci e rumori non riusciamo ad ascoltarci

La vera musica è il silenzio, diceva Miles Davis, le note gli fanno solo da cornice. Oggi il quadro è stato rubato ed è rimasta solo la cornice. Rumore e fragore, suono e frastuono, trilli e strilli. Un tessuto di frequenze in libertà che si accavallano, si coprono, si annullano, si sovrappongono.
La nostra esistenza è tutta jingle, crash, boom, drin, voci sparate a tutto volume. Un big bang a tempo indeterminato, attivo anche di notte. Che una volta era il tempo della quiete, il regno silente della poesia, del raccoglimento e del riposo. Mentre adesso è costellata di sonorità intermittenti, di segnali ricorrenti, di richiami uditivi.
È il mormorio digitale. Il canto notturno dei nostri strumenti elettronici che manifestano la loro presenza. Questo ron ron virtuale è il verso animale del nostro tempo, il suo rumore di fondo. Croce e device. Una ninnananna a bocca chiusa che ci rassicura e ci fa dormire sonni tranquilli. Perché allontana lo spettro del silenzio. Che ormai ci sgomenta con il suo vuoto, diventato insopportabile. Perché è come un bianco dell'anima che ci lascia soli con i nostri pensieri. E ci costringe a prendere atto che non riusciamo a sopportare la compagnia di noi stessi. Che non sappiamo cosa dirci.
Ecco perché nascondiamo la testa sotto un cuscino di rumore che copre il suono del silenzio. Il risultato è che stiamo perdendo la facoltà di ascoltare e di ascoltarci per l'eccesso di segnali, per la bolla sonora che ci avvolge. Per cui siamo costretti ad alzare il volume giorno dopo giorno. E se lo strepito scompare di botto, andiamo in crisi di astinenza da decibel. Come succede allo stadio, quando osserviamo un minuto di raccoglimento per qualcuno o qualcosa. E precipitiamo in un vuoto abissale, una sospensione paurosa del bioritmo sociale. Che ci affrettiamo a riempire con applausi e cori.
Siamo lontani anni luce da quelle culture o da quelle religioni che prescrivono periodi di apnea acustica per entrare in contatto con una dimensione più profonda del mondo e dell'anima. A noi persone di superficie, questa profondità sembra ormai una perdita di tempo. E allora schiacciamo il tasto play.
Marino Niola

(la Repubblica 6 maggio)