Newsletter n° 20 del 5 giugno 2017
Gentili amici,
"Sabato
3 giugno la vigilia di Pentecoste sono successe diverse cose che ci
parlano del presente e del futuro del mondo: la decisione di Trump di
tradire gli obblighi assunti dagli Stati Uniti col trattato di Parigi
sul clima, il nuovo attentato terroristico sul ponte di Londra, le bombe
dei kamikaze contro un funerale eccellente nel cimitero di Kabul, la
città di Marawi nelle Filippine occupata dai jihadisti islamici mentre
si contano i morti della strage di Manila, a Torino, in una giornata di
perfetta pace, un bambino in coma e 1527 feriti, in una folla in fuga
che per la paura si è fatta male da sola. Quando poi si ascoltano le
letture bibliche di Pentecoste, mentre tutte queste cose accadono
insieme, sembra come se quel tempo nuovo che vi era annunciato non
fosse mai cominciato.
Degli eventi di quel sabato 3 giugno la lezione più importante è quella
di Torino. I cittadini e tifosi lì riuniti non avrebbero avuto nessuna
ragione di fuggire, perfino se si fosse udito un petardo o qualche
sconsiderato avesse gridato a una bomba. Ma avevano tutte le ragioni di
aver paura per tutto ciò che era successo fino ad allora e per quello
che stava succedendo a Londra, a Kabul, nelle Filippine, a Washington,
in Africa e in Medio Oriente. In effetti a parte le vittime del clima,
non quantificabili, quegli eventi in quelle ore hanno provocato
centinaia di morti e migliaia di feriti in diverse parti del mondo.
Qualcuno sui giornali, sconsideratamente, ha scritto che ormai la gente
si è abituata alle stragi, che c’è una specie di assuefazione, e non si
sa se lo ha detto per rammaricarsene o per rallegrarsi del fatto che,
nonostante salga il conto delle vittime, tutto, anche gli affari,
continui come prima.
Invece è proprio l’assuefazione, la rassegnazione, il “non c’è niente da
fare”, “la vita continua” e i concerti pure, che non sono ammissibili,
occorre non rassegnarsi, non abbozzare, non fare come se niente fosse,
occorre dire di no e fermare la discesa nel precipizio. E se la novità è
che, a differenza di quanto avveniva con l’IRA (Irlanda), con le
Brigate Rosse (Italia), con l’ETA (Paesi Baschi), con i Tupamaros
(Uruguay), che avevano ciascuno le proprie ragioni, oggi il terrorismo è
globale ed ha una centrale mondiale, vuol dire che va combattuto e
interdetto a livello globale. E ci vorranno pure le armi, ma per
mettere fine alla minaccia globale c’è un solo mezzo, ed è il solo mezzo
che oggi non c’è, non c’è più, né si vuole che ci sia, e questo mezzo è
la politica. E se la politica non provvede, e se il terrorismo globale
non finisce, il tempo è bloccato, e la storia non può ricominciare.
C’è stato un altro momento in cui il mondo era totalmente preda della
violenza e, se ciò non finiva, la storia non poteva ricominciare.
Fu nel 1945 quando la seconda guerra mondiale aveva già prodotto e stava
ancora producendo immani dolori, e si decise di voltare pagina. Le
Nazioni si unirono a San Francisco per organizzare un mondo “dopo la
guerra”, cioè un’epoca senza più guerre, e ci furono cinque Nazioni che
si assunsero il compito di vegliare e operare perché la pace fosse
preservata e la storia potesse cominciare; i loro nomi erano Stati
Uniti, Russia, Inghilterra, Francia e Cina. Erano di lingue, culture e
religioni diverse, nessuno avrebbe potuto accusarli di essere crociati
di una parte sola. Ma questo collettivo dei “5 Grandi” ha poi tradito il
suo compito, si sono divisi e combattuti tra loro, e la guerra è
tornata.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il terrorismo globale va
combattuto ma, come si è visto, se lo combattono Stati Uniti o Francia o
l’Occidente intero da soli, invece di diminuire, aumenta. Anche perché
prima di combatterlo l’hanno generato e forse addirittura finanziato ed
armato, in ogni caso l’hanno usato, ciascuno cercando di volgerlo a
favore della propria ragion di Stato.
E così la storia di nuovo si è fermata. Quei Cinque insieme devono ora
tornare ai giorni della decisione comune. C’è il capitolo VII della
Carta dell’ONU che dice che cosa devono fare. Devono creare un Comitato
di Stato Maggiore formato dai Capi di Stato Maggiore dei loro cinque
eserciti, devono formare un corpo di polizia internazionale comandato
congiuntamente da loro e, invece di bombardare e massacrare inutilmente
“terroristi” e civili innocenti, con gli aerei o coi droni, mandare un
corpo di spedizione integrato a liberare Raqqa e Mosul, restituire
secondo il diritto i loro territori strappati alla Siria di Assad e
all’Iraq di Fuad Masum, e togliere all’ISIS o Daesh di Abu Bakr
al-Baghdadi l’usurpata qualifica di soggetto internazionale e la
struttura politica militare e territoriale di uno Stato. Ciò vuol dire,
in un mondo dove tutto si privatizza ed è sottratto al pubblico,
privatizzare e escludere da una dimensione pubblica la centrale
terrorista, toglierle gli strumenti pubblici della comunicazione e del
potere, impedirle di convocare, accogliere e addestrare terroristi
kamikaze e foreign fighters per tutto il mondo, e insomma tagliare la testa del serpente.
È una guerra? Ebbene sì, ma è la guerra già in corso, finalmente
convertita in un uso legittimo di una forza internazionale, regolata e
organizzata da una Costituzione mondiale da tutti sottoscritta,
insospettabile di mire imperiali o coloniali, spoglia di ogni
connotazione ideologica o religiosa, aliena dalla totalità distruttiva e
indiscriminata che è propria della guerra destinata alla distruzione
del nemico, e mirante all’unico scopo di rimuovere il macigno che oggi
incombe sul mondo e permettere che la storia del mondo di nuovo cominci.
Se questo non si vuole fare, se non lo si può fare (non tutto è
possibile alla politica), se si vuole che il terrorismo resti globale,
c’è la lezione di Torino: la gente non dovrà più temere solo gli altri,
dovrà temere se stessa. E qui c’è un inconcepibile, pauroso rimedio:
trasporre dal locale al globale quelle che in certe situazioni furono
misure di emergenza di poteri totalitari: stabilire un coprifuoco
mondiale, vietare assembramenti di più di tre persone, finirla con
stadi, partite, concerti, comizi processioni e cortei. Forse si
morirebbe in meno, ma la civiltà, e la vita stessa, sarebbero finite.
Perciò occorre tornare alla politica, quella grande, esercitare l’azione
internazionale, fino all’uso della forza (proibito invece ai singoli
Stati) contro le minacce alla pace, le violazioni della pace e gli atti
di aggressione, a norma degli artt. 39 – 42 della Carta dell’ONU, e
riprendere una cooperazione globale di tutti i membri della comunità
giuridica mondiale.
Questa sarebbe una politica all’altezza dei problemi di oggi. Certo, si
può continuare così, che ognuno pensi solo a se stesso, che la Carta
dell’ONU resti inattuata, che il terrorismo prosperi e la gente sia
sempre più impaurita, che gli stranieri anneghino e che aumentino gli
scartati e gli esclusi. Ma che senso avrebbe lasciare che tutto vada
secondo questo verso, l’inquinamento non meno del terrorismo, la strage
di migranti e di profughi non meno che l’ingiustizia globale?".
Quello che precede è l'editoriale di Raniero La Valle nella sezione "dicono la loro". Nel sito compare oggi anche una riflessione di Enzo Bianchi sulla Pentecoste e, in vista dell'assemblea di "Chiesa di tutti Chiesa dei poveri" del 2 dicembre, un'argomentazione di Carlo Molari sul "significato della croce e l'equivoco del sacrificio" nella sezione "dicono i teologi".
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