giovedì 20 luglio 2017

L'ignoranza di Gesù

Conversione, tentazione, crisi sono altrettante realtà attraverso le quali diventa evidente che Gesù ha dovuto accettare che Dio sia Dio. La sua disponibilità a tutto questo dimostra che Gesù è stato davvero l'uomo disponibile davanti a Dio. Ma prima di terminare occorre ancora considerare uno dei presupposti che accompagnano tale disponibilità: l'ignoranza di Gesù, correlativa alla sua attiva disponibilità ad ascoltare la Parola del Padre. Senza l'ignoranza infatti la disponibilità non avrebbe senso logico.
Nella teologia il tema dell'ignoranza di Gesù viene dibattuto per ragioni dogmatiche ed esistono diverse interpretazioni dei testi evangelici per cercare di mitigarne il senso. Tuttavia una lettura onesta dei sinottici impedisce di evadere dal tema, senza dire quanto essa risulti positiva dal nostro punto di vista: fa comprendere più facilmente come l'esperienza che Gesù ha avuto di Dio sia stata realmente teologale e lo mostra di nuovo pienamente solidale con tutta la realtà umana.
Il fatto che Gesù passasse attraverso il processo umano di arrivare a conoscere ciò che prima era sconosciuto sembra un presupposto normale nei sinottici; Luca infatti non prova nessun imbarazzo nell'affermarlo: «Gesù cresceva (progrediva) in sapienza (Lc 2,52). Questo tipo d'ignoranza, compresi gli errori per così dire «normali» che commettiamo come esseri umani, non avrebbero di che sorprendere per la loro presenza nella vita di Gesù. Solo un'antropologia come quella greca, che fonda la perfezione ultima sulla conoscenza e quindi sull'assenza di qualsiasi ignoranza ed errore, potrebbe scandalizzarsene. Senonché, come dice K. Rahner nel parlare dell'«errore» di Gesù in base ad altri presupposti antropologici, «per l'uomo storico e quindi anche per Gesù è meglio questo "sbagliare" che sapere tutto in anticipo».
Ciò nonostante, quello che più colpisce - come si è già visto nell'analisi delle tentazioni - è che l'ignoranza e l'errore di Gesù di cui parlano i vangeli non riguardano solo cose di ogni giorno, le quali non vengono menzionate, bensì figurano a livello teologale. Per dirla in breve, non è che Gesù non sapesse di Dio, ma la sua coscienza umana non ha potuto fare una sintesi perfetta di tutto ciò che è Dio. Se partiamo da Marco 9,1 - «vi assicuro che tra i qui presenti vi sono alcuni che non assaggeranno la morte finché non vedano venire con potere il regno di Dio» (Mt l6,28; Lc 9,27; cfr. pure Mc l3,30 e Mt 10,23 sulla convinzione di Gesù circa la venuta prossima del regno); - si può osservare che quella di Gesù non è un'ignoranza di dettaglio, bensì verte su qualcosa di essenziale per lui e di importante in se stesso com'è il momento della venuta del regno. Queste parole traducono a quanto pare, un nucleo storico e mostrano in Gesù non solo l'ignoranza ma un errore, senza che si possa ribattere che il regno era già di fatto arrivato con Gesù, poiché anche se così si reinterpretasse - reinterpretazione successiva - la realtà del regno, rimarrebbe sempre vero che Gesù non la vedeva così. Ciò dovette richiamare l'attenzione a tal punto che questi testi contenenti un «errore» furono sostituiti in seguito dalle comunità con la semplice «ignoranza» di Gesù. «Quanto poi a quel giorno e a quell'ora nessuno ne sa nulla, né gli angeli in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre» (Mc 13,32). Di Gesù dunque, presentato come assolutamente fiducioso e vicino al Padre, i vangeli non hanno difficoltà a dire che non conosce il giorno della venuta di Dio. È questa un'ignoranza o un errore che non riguardano solo cose quantitative, misurate in mesi o anni, ma una realtà qualitativa per antonomasia. Di questo Gesù non sa semplicemente nulla.  È il mistero di Dio e solo di Dio.
L'elemento positivo per questa sezione del nostro capitolo è che il non sapere il giorno della venuta del regno costituisce il presupposto noetico dell'apertura senza riserve a Dio. Si tratti di errore o di ignoranza su quel giorno Gesù in definitiva non forza il segreto di Dio. Per dirla in termini sistematici, Gesù ha un rispetto assoluto per la trascendenza di Dio e il suo non sapere non ha quindi nulla dell'imperfezione, bensì esprime la propria condizione di creatura: «egli avrebbe semplicemente condiviso la nostra sorte… (poiché) una coscienza genuinamente umana deve avere davanti a sé un futuro ignoto». Accettando questo non sapere, Gesù è creaturalmente aperto a Dio. Il fatto che Gesù non abbia potuto tenere unite nella propria coscienza storica la fiducia nella venuta del regno e la conoscenza di quel giorno non prova per nulla la sua imperfezione, lo fa invece partecipe di quella realtà umana che gli permette di essere uno che ascolta la parola. La limitazione del suo sapere categoriale è la condizione storica per rendere reale il suo affidarsi a Dio:
«Alla dedizione di Gesù alla propria missione e a colui che lo ha inviato, il Padre, non è necessariamente unita una onniscienza, neppure una prescienza infallibile... La limitazione della conoscenza di Gesù, anche dal punto di vista della sua relazione con Dio, appartiene piuttosto alla perfezione dell'affidare la propria persona al Padre».
In questa breve rassegna su conversione, tentazione, crisi e ignoranza di Gesù abbiamo concentrato l'attenzione sulla sua attiva disponibilità a Dio a partire da ciò che essa ha di costoso e di oscuro; crediamo infatti che in tal modo si chiarisca meglio che cosa significhi accettare che Dio sia Dio. Non si tratta di una questione idealistica, è invece questione di un atteggiamento realmente storico, reso possibile e problematico dalla storia e realizzato all'interno della storia. È la storia che procura il sapere e verifica anche il non sapere, ma nel «non sapere» del Dio Gesù «sapeva» di Dio, dal momento che accettava ch'egli fosse Dio. C'è un'unica spiegazione: «Il mistero continua a essere mistero in eterno».
(Jon Sobrino, op.cit. pagg 266-268)