Guida
ai confusi su ultradestra e islamofobia
Gerusalemme. Il
gioco di Tel Aviv: la questione è non il metal detector sulla
Spianata o la telecamera di sorveglianza. Il governo Netanyahu
sfrutta l’apatia generale e l’islamofobia europea per proseguire
con l’occupazione
EDIZIONE
DEL22.07.2017
PUBBLICATO21.7.2017,
23:57
Che
cosa sta davvero accadendo nella discussa e sacra Spianata delle
Moschee – per i musulmani – o Monte del Tempio – per gli
israeliani?
Mentre
scrivo queste righe, in questo venerdì problematico e pieno di
tensione, sono già tre i palestinesi morti, oltre a due feriti gravi
e vari altri feriti leggeri. È il bilancio degli scontri registrati
durante le preghiere del venerdì, stavolta recitate all’esterno
della Spianata delle Moschee.
All’inizio
della guerra del 1967, le truppe israeliane conquistano la città
vecchia di Gerusalemme. Un soldato patriota ed entusiasta sale sul
tetto della sacra Moschea di Al Aqsa e issa la bandiera israeliana.
Il ministro della difesa Moshe Dayan ordina di toglierla
immediatamente; capisce bene che si tratta di un affronto a uno dei
luoghi più sacri per i musulmani.
Dayan,
insomma, avviava un’occupazione dai risvolti drammatici, da un lato
con pugno di ferro ma dall’altro con passi pragmatici e
concilianti. I vari governi israeliani succedutisi nel tempo hanno
sempre mostrato di rendersi conto che la Spianata delle Moschee era
un luogo potenzialmente esplosivo; innescarlo poteva avere
conseguenze terribili.
Dunque,
badarono a frenare i fondamentalisti ebrei che sognavano il
ripristino del tempio, elemento centrale delle concezioni messianiche
– il tempio la posto delle moschee. Ma nel 1996, poco dopo essere
diventato primo ministro, Benjamin Netaniahu, ebbro del successo
elettorale, ordina di aprire un tunnel che porta alla Spianata.
Esplodono
gli scontri: cento palestinesi e 17 soldati israeliani rimangono
uccisi. Il premier è costretto a fare alcune concessioni ad Arafat
rispetto a Hebron. Nel 2000, il premier Ehud Barak autorizza la
visita di Ariel Sharon alla Spianata e la provocazione innesca la
seconda Intifada. Nel frattempo altri incidenti provocano non poche
vittime.
La
settimana scorsa, tre israeliani, arabi palestinesi della città di
Um El Fahem, imbevuti di ideologia fondamentalista (oppure no)
portano nottetempo armi nella moschea e il giorno seguente attaccano
i poliziotti in servizio, uccidendone due; gli aggressori sono a loro
volta uccisi.
Come
se non bastasse, i tre poliziotti morti sono drusi; un fatto che
aggiunge benzina al fuoco delle tensioni fra arabi israeliani e drusi
israeliani.
L’impulsivo
ministro della polizia Gilard Ardan, schierato all’estrema destra,
è il nuovo eroe. Più veloce di qualunque pensiero – va detto che
l’attuale governo israeliano si distingue per l’incapacità di
riflettere – induce Netanyahu a compiere passi che aggravano la
tensione in un luogo pericoloso come la dinamite.
Senza
consultare i giordani – con i quali, seppure in modo semiufficiale,
vengono in genere prese le decisioni rispetto alla Spianata –, il
governo israeliano dichiara il divieto di accesso alle moschee per
due giorni, «per ragioni di sicurezza» e fa disporre telecamere di
sorveglianza e metal detector, destinati a controllare e a bloccare
l’ingresso di altre armi.
I
leader religiosi musulmani non accettano queste apparecchiature,
sostenendo che si tratta di una violazione dello status quo deciso
fra le parti – israeliani, palestinesi, giordani. La polizia –
grazie al suo problematico ministro – sostiene che si tratta di un
passo minimo necessario per questioni di sicurezza e che ci sono
telecamere sul Muro del Pianto, a cento metri di distanza, come negli
aeroporti, nei supermercati e via dicendo.
Ma
l’esercito israeliano e i servizi segreti fanno notare che, benché
in effetti le apparecchiature di sicurezza siano in uso in molti
luoghi, nel caso specifico sarebbe raccomandabile rimuoverle perché
provocano tensioni e potrebbero far deflagrare nuovamente la
situazione. Insomma, suggeriscono una visione strategica e chiedono
al primo ministro di trovare la formula per una «ritirata
onorevole».
Sabato
notte il premier va in Francia, baci e abbracci con il giovane
presidente; poi si reca da amici veri, in Ungheria. Netanyahu si
sente a proprio agio con gli ultrà di Ungheria, Polonia, Repubblica
Ceca e Slovacchia.
Beh,
certo, Orbán ha ordinato una campagna dai tratti antisemiti contro
quell’orribile ebreo, George Soros, ma Soros per Netanyahu è una
vergogna, un vero nemico che appoggia gruppi antiisraeliani, come ad
esempio le organizzazioni per i diritti umani in Israele.
Ebbene,
l’Europa deve capire che Israele è la frontiera che bloccherà la
barbarie musulmana; invece di criticare lo Stato ebraico, gli europei
devono rendersi conto che è una ricetta per la vittoria, altrimenti
saranno sconfitti. In soldoni, è questo l’ammonimento che il
grande premier dà agli statisti europei che non capiscono troppo
bene la situazione laggiù.
Poi
Netanyahu torna in patria e si trova di fronte a un grave dilemma.
L’ultradestra spiega che la discussione non verte intorno alle
telecamere e ai metal detector; piuttosto, è in gioco la sovranità
del paese e il governo deve sottolineare con forza che Israele è
sovrana anche sulla Spianata, senza arrendersi alle pressioni
dall’estero o alla minaccia di situazioni esplosive.
Netanyahu
non può mostrarsi meno radicale dei suoi alleati di destra e va
avanti nella direzione suggerita dalla polizia.
Un
morto, due, venti? Non ha importanza. Il punto è come fare per
impedire qualunque accordo suscettibile di portare a una pace
israelo-palestinese. Stavamo dimenticando l’annuncio del ministro
dell’habitat che ha un magnifico programma: costruire case secondo
piani che dividerebbero ulteriormente la Cisgiordania occupata.
Grazie
all’apatia generale e all’islamofobia europea, il governo di
Israele potrà proseguire con l’occupazione. Una politica che rende
la pace impossibile.