sabato 15 luglio 2017

"Le urla: negro vattene, poi le botte"

ROMA. «Ho chiesto a quattro ragazzi seduti a fumare su una panchina se sapevano dove fosse di preciso la casa che mi aveva assegnato il Comune. Gli ho mostrato il foglio con l'indirizzo, me l'hanno strappato di mano e hanno urlato: "Negro vattene via, qui non ci puoi venire, la casa è occupata". Poi mi hanno picchiato». Dulal Howlader, cittadino italiano di origine bengalese, ha 52 anni, dei quali 25 vissuti nel nostro Paese. Lavora come lavapiatti in un ristorante del rione romano di Prati. Ha due figli: Shafee, 19enne, iscritto al primo anno di Ingegneria, e una piccola di 8 anni affetta da una grave invalidità. Dulal ricostruisce l'aggressione subita lunedì scorso nel vialetto che separa i lotti delle case popolari in largo Ferruccio Mengaroni, a Tor Bella Monaca, estrema periferia di Roma. Mostra la camicia a righe strappata all'altezza del petto durante la colluttazione. «Se non fosse intervenuto un passante mi avrebbero ucciso».
Lunedì è arrivato con la sua Panda, verso le 13.30, nel quartiere dove il Comune gli aveva trovato un alloggio popolare. Era il suo giorno libero e «mi sono vestito bene per vedere la nuova casa. Aspettavo da tanto questo momento, avevo fatto domanda nel 2013». Arrivato in Italia da solo nel 1992, a 27 anni, per anni ha lavorato come facchino in un mercato rionale a scaricare cassette di frutta tutto il giorno a 150 euro a settimana. Poi, nel 2008, è diventato lavapiatti. Due settimane fa ha saputo di essere nono in graduatoria per l'assegnazione di un alloggio a canone popolare.
Sul foglio del dipartimento Politiche abitative c'era scritto il piano, l'ottavo, ma non il civico della sua nuova casa. Così Dulal ha chiesto a quattro giovani seduti davanti ai palazzoni di 14 piani di largo Mengaroni. «Dopo avermi insultato mi hanno dato uno schiaffo sul viso, mi hanno strattonato al petto, per fortuna sul lato destro (a sinistra ho il pacemaker). Io non ho reagito, mi sono girato per andarmene. Mentre ero di spalle mi hanno dato una ginocchiata alla schiena, facendomi cadere a terra. Per fortuna passava un signore che ha detto ai ragazzi di smetterla, che mi stavano ammazzando. Poi ha chiamato la polizia e l'ambulanza». Il gruppo si è sciolto e ognuno è scappato in una direzione diversa. «Ricordo solo che due di loro avevano l'accento napoletano», conclude Dulal, e questo ha messo a verbale, il giorno dopo l'aggressione, nella sua denuncia al commissariato. «Sa cosa mi ha detto il poliziotto che ha registrato la denuncia? "Ma che sei pazzo a venire qui? Se ci vieni a vivere questi ti ammazzano. Quando non ci sei ti occupano la casa". Avevo scelto quella casa fra tre opzioni, perché è la meglio collegata al centro e all'ospedale Bambino Gesù, dove si cura mia figlia che ha dei problemi di salute dalla nascita».
Degli aggressori ancora nessuna traccia: la polizia li cerca anche grazie all'aiuto delle telecamere della zona. In largo Mengaroni nessuno vuole parlare dell'aggressione. «Qui ci sono più stranieri che italiani, dobbiamo stare attenti noi a loro. Altro che pestaggio, non è successo niente, quello si è inventato tutto», sostiene un giovane poggiato a un muro su cui campeggia a caratteri cubitali la scritta "Forza Nuova". Dulal ha ricevuto la solidarietà del Campidoglio. Oggi al Comune chiede «anche un buco, purché in una zona non pericolosa. Non sarò qui per sempre, tra cinque anni voglio tornare nella mia città, Chandpur».
Federica Angeli
Luca Monaco

(la Repubblica 1 luglio
)

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