La
tecnocrazia è senz’altro l’aspetto che più caratterizza la
cultura moderna occidentale. Essa ha reso tutto monetizzabile e
dipendente dall’economia: il tempo, l’educazione, il matrimonio,
il nutrimento, la mia salute, le mie credenze, la mia felicità.
Tutto ha un coefficiente economico, ossia, in altre parole,
quantificabile. L’uomo – secondo l’antropologia che sta alla
base di queste convinzioni – non è che un insieme di bisogni. Se
gli si offrono i mezzi per soddisfarli, l’uomo è felice. Questo
tipo di mentalità e di cultura non è universale né
universalizzabile. E non lo è né da un punto di vista qualitativo,
né da un punto di vista quantitativo: il 6% della popolazione
mondiale consuma il 40% delle risorse disponibili e ne controlla il
60%. Le possibilità e le risorse del pianeta sono limitate. Nella
prima metà del secolo il sistema economico mondiale era
relativamente aperto. Ora il sistema è chiuso e in un sistema chiuso
ogni aumento in una regione comporta una diminuzione in un’altra.
Viviamo un aumento costante d’entropia. Il nostro stile di vita non
può essere mantenuto su scala mondiale. Nel complesso tecnocratico
ogni progresso implica un regresso in un altro ambito. La cultura
moderna contiene in se stessa il germe della propria autodistruzione.
E’ proprio quel desiderio d’assoluto, d’infinito, che la
sorregge, ciò che provocherà la sua inevitabile fine. Quando il
desiderio d’assoluto non si esprime nella sfera, appunto,
dell’assoluto, ma in quella del relativo, del materiale, non può
che diventare una specie di cancro autodistruttore, perché ciò che
è limitato non può sostenere uno slancio infinito.
Raimon
PANIKKAR