“CONFESSIONE DI FEDE DI UN ERETICO” (DON FRANCO BARBERO)
La maggior
parte dei cristiani, soprattutto se appartenenti alla confessione di fede
cattolica, hanno delle nozioni teologiche così vaghe e imprecise che
difficilmente possono essere scossi dalle novità in campo esegetico, biblico,
storico. Tuttavia ce ne sono alcuni che, avvicinandosi all’età adulta, non si
accontentano delle formulette catechistiche infantili e si chiedono cosa
significhi davvero che esiste Dio, che Gesù era il figlio di Dio, che ha
fondato una Chiesa indefettibile et cetera.
Se lo studio personale, il dialogo con gli esponenti autorevoli, i confronti
comunitari li convincono, aderiscono davvero alla Chiesa originaria;
altrimenti, più o meno radicalmente, se ne vanno.
In quelli che
restano con convinzione, e per convinzione, è frequente che il fuoco della
ricerca teologica e spirituale non si spenga; che continuino a cercare; che,
agostinianamente, dopo aver capito per credere, credono per capire meglio. Don
Franco Barbero è stato, ed è, uno di questi infaticabili cercatori: e quando le
gerarchie ecclesiastiche gli hanno intimato di fermarsi nella ricerca teorica e
pratica, ha preferito pagare tutti i prezzi necessari per mantenere la libertà
di pensiero e di parola. Dopo decine di libri pubblicati, esce adesso la sua Confessione di fede di un eretico
(Mille, Torino 2017, pp. 188, euro 18,00): una sorta di piccola summa delle
numerose acquisizioni maturate nei lunghi anni di studio e di esperienza
ministeriale con le persone di ogni orientamento ideale e sessuale.
Senza perdersi
in discussione su dogmi cristiani periferici (alcuni dei quali, come la
verginità della Madonna o l’infallibilità del papa, non sono neppure comuni a
tutte le chiese ma solo alla Chiesa cattolica romana) l’autore va
dritto al centro della fede comune a tutte le confessioni cristiane: chi è
stato davvero Gesù di Nazareth? Con il sostegno di decine di pubblicazioni di
teologi cattolici, protestanti, anglicani (ormai tradotte in diverse lingue del
pianeta) egli risponde: è stato un “figlio di Dio” nell’accezione semantica che
la formula aveva nel I secolo della nostra era. Egli, molto probabilmente, non si è mai definito tale; ma se lo avesse
fatto – e comunque i primi discepoli lo hanno così definito – la denominazione
si riferisce a qualcuno che Dio ha “investito di una specialissima funzione, di
un particolare ‘potere’ liberante”, e che può adempiere tale missione solo se
“vive una intimità e una prossimità straordinarie con Dio” (p. 47). E’ perciò filologicamente
scorretto affermare, come hanno fatto le chiese cristiane dai concili del
quarto e quinto secolo in poi (per altro non senza forti resistenze ‘interne’),
che “figlio di Dio” significhi che Gesù è Dio, della stessa “natura” o
“sostanza” del Padre, che vada adorato come l’Unigenito dell’Unico.
Ma allora, in
cosa crede un eretico come don Franco Barbero? Che, per i cristiani, “Gesù è la via che conduce a Dio e la strada e la
causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell’esistenza storica del
profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci
manifesta la sua volontà, le scelte e l’amore con cui Dio ama” (p. 19).
Troppo poco?
Per i signori dell’ortodossia, certamente. Ma per i ricercatori s-pregiudicati, al contrario, è troppo. La
benedetta e illuminata “eresia” di Barbero si è forse fermata prematuramente?
Non ha ancora davanti agli occhi e, soprattutto, al cuore degli interrogativi
ulteriori che si impongono come macigni? Ne segnalo due tra quelli che, da anni
ormai, mi affaticano.
Il primo: in
che senso Gesù non è “una” via ma “la” via verso Dio? Barbero finemente precisa
che ciò vale “per noi cristiani”. E cita un altro illustre eretico
contemporaneo, il vescovo episcopaliano Spong: “Non affermerò mai più che il
mio Cristo è l’unica strada per arrivare a Dio, perché ciò sarebbe un atto
estremo di umana follia. Dirò, comunque, che questa è l’unica strada per me,
poiché questa è la mia esperienza” (cfr. p. 52). Ma la questione, se non erro,
è così solamente spostata: se Gesù è una delle tante, possibili, strade per
entrare in comunione con Dio, per quale ragione mi dico cristiano e non
islamico o induista? Di solito si risponde (ma non so se questa sia anche la
risposta di Barbero o di Spong): perché sono nato in una tradizione cristiana. Una
simile risposta non mi convincerebbe: non più in un’epoca di pluralismo etnico
e religioso ormai dilagante, almeno
nella zona nord-occidentale del globo. Nell’attesa di una risposta più
convincente sono arrivato alla conclusione di evitare ogni ambiguità: se essere
cristiano significa ritenere che Gesù
sia “la” via verso Dio (o oggettivamente o soggettivamente), non sono più
cristiano. (In questa posizione sarei, mi pare, in buona compagnia: a partire
da Gesù stesso. Esperti come Paul Knitter mostrano come tale pretesa di
esclusività o di netta superiorità rispetto ad altri percorsi non appartenesse
al Gesù storico: è sorta con l’apostolo Paolo e si è ingigantita con l’autore
del vangelo secondo Giovanni. Insomma è una pretesa che viene attribuita a Gesù
dai fondatori del cristianesimo come si è andato strutturando effettivamente: del cristianesimo, direbbe
Ortensio da Spinetoli, come prima e fondamentale ‘eresia’ rispetto alla fede
“di” Gesù e al suo messaggio originario). Sarei allora un post-cristiano o
addirittura un a-cristiano o un anti-cristiano? Per nulla. Rispetto al
cristianesimo storico mi considero piuttosto un oltre-cristiano (cfr., ad esempio, il mio In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani,
Falzea, Reggio Calabria 2007): sono serenamente convinto che Gesù di Nazareth sia
“una” via significativa e coinvolgente, come in altre culture e per altri
temperamenti possono esserlo Buddha o Mosé, Platone o Maometto. Questo non lo
penso in chiave relativistica, bensì prospettivistica: ogni grande maestro
dell’umanità ha evidenziato aspetti veri, ma parziali, dell’Assoluto. Ed è
stato grande perché non si è limitato a insegnare a parole quello ‘scorcio’ del
Divino che ha intravisto, ma lo ha incarnato esistenzialmente. Capisco che,
dopo una vita di appartenenza al mondo cattolico, prima, e poi, più ampiamente,
cristiano-ecumenico, sia sentimentalmente difficile ammettere di non
appartenervi più: ma nella babele attuale delle lingue, il minimo che si possa
fare è cercare di calibrare con cura le parole.
Il secondo
macigno su cui mi sono imbattuto nella ricerca di Dio - macigno su cui il pastore d’anime don
Franco Barbero si imbatte tragicamente e generosamente ogni giorno – è ancora
più ingombrante: che Gesù sia “la” strada o “una” strada per accedere al
Mistero di Dio come “Amore”, è legittimo ritenere che questo Volto di Dio sia
reale? Non sto contestando il dato biblico che, nell’annuncio cristiano, il
centro e il culmine consistano nella confessione di Dio come Agape, Dono
incessante e gratuito di sé (anche se non mancano dei passaggi di segno
diverso, talora opposto); mi chiedo, invece, se questo annuncio sia compatibile
con il mare di sofferenze (non solo innocenti, ma anche inevitabili) che si
verificano sul pianeta sotto i nostri occhi e che, secondo le scienze naturali,
hanno segnato il cammino dell’evoluzione animale e umana. Desidero essere più
preciso possibile: mentre, sia pur con difficoltà, riesco ad ammettere
l’ipotesi che un Dio-Amore possa convivere con lo strazio provocato dagli umani
per propria insipienza (anche se le prime forme umane forse non avevano neppure
la possibilità di comportarsi in maniera meno crudele), mi riesce molto più
difficile ammettere la compresenza di un Dio-Amore con il dolore sperimentato
nel passato, nel presente e nel futuro da miliardi di viventi senzienti come
effetto delle leggi naturali. Mi si potrebbe obiettare: è vero che scienze e
speculazioni filosofiche ci pongono davanti a un universo che attesta tanto la
provvidenza quanto la sovrana indifferenza divina, ma chi accetta la
testimonianza di Gesù – esegesi vivente del Dio invisibile – può trascendere il
livello dei dubbi e attingere la verità ultima del Dio amorevole. Questo
passaggio aveva una sua logica quando si riteneva di avere elementi per
ammettere che in Gesù si fosse incarnato, puntualmente e integralmente, il
Verbo; ma se Gesù è solo un essere umano e fallibile, come tutti noi, il suo
messaggio teologico ha lo stesso valore ipotetico di qualsiasi altra asserzione
su Dio. Il criterio di accettazione di tale messaggio va dunque cercato
altrove, non può essere autoreferenziale: per esempio se esso conferma le acquisizioni della
ricerca scientifica e filosofica o, per lo meno, se non confligge con esse. Insomma: a me pare
che la questione cristologica rimandi alla questione ‘teo-logica’ e che libri come Oltre le religioni, con tutte le
possibili riserve che suscitano, hanno il coraggio di andare sino a quel fondamento radicale. Il futuro della
religione mi appassiona poco (e, nonostante il titolo dei saggi raccolti, non è
a mio parere il cuore del volume); molto di più cercare di capire il futuro
della fede in un Principio di vita e di amore in un orizzonte conoscitivo in
cui sembrerebbe non esserci frammento di
luce e di bene che non comporti il risvolto del buio e del male.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com