domenica 14 marzo 2021

Il Padre Nostro nel contesto della tradizione ebraica

Elena Lea Bartolini De Angeli

[Pubblicato in «Horeb» 23 (2014/2) pp. 14-20]

 

La comprensione di Dio come Padre ('av) è un elemento tipico della tradizione ebraica rilevabile a partire dal testo biblico. Ad esempio nella Torah – l'insegnamento divino rivelato al Sinai – il "Cantico di Mosè" ricorda al popolo di Israele la grandezza del Signore precisando: "Non è Lui tuo Padre ('avika) che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?" (Dt 32,6). E i testi profetici, in particolare i libri di Geremia e Isaia, ribadiscono:

 

[Il Signore a Israele] Forse non gridi verso di me: "Padre mio?" ('avi), amico della mia giovinezza […]. Come vorrei considerarti tra i miei figli […] a cui dare l'eredità […]. Voi mi direte: "Padre mio" ('avi) […]. Ritornate figli peccatori (Ger 3,4; 19; 22).

 

[Il Signore a Israele] Io sono un Padre (le'av) per Israele. […] Efraim è figlio caro […], le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza/compassione [anche se peccatore] (Ger 31,9 e 20).

 

[Israele al Signore] Tu sei nostro Padre ('avinu), ti chiami nostro redentore (Is 63,16, cfr. Dt 32,6).

 

[Israele al Signore] Tu sei nostro Padre ('avinu) che ci ha plasmato come argilla (Is 64,7).

 

Questi solo alcuni degli esempi citabili, in quanto la Scrittura utilizza con molta frequenza la categoria affettiva paterna (ma anche materna) per esprimere l'amore di Dio per le sue creature verso le quali stabilisce un rapporto paterno/materno-filiale.

Tale dimensione viene espressa e celebrata dalla tradizione ebraica attraverso la liturgia, sia quotidiana che delle grandi feste, nell'ambito della quale ci si rivolge al Signore chiamandolo "Padre nostro" ('avinu). Nella quinta delle diciotto "benedizioni" che accompagnano lo Shema', la professione di fede, si dice: "Convertici Padre nostro ('avinu) alla Tua Torah"1, mentre in una delle formule litaniche che ricorrono durante alcune feste – come il Capodanno religioso e il giorno del Perdono – si ripete ad ogni invocazione "Nostro Padre e nostro Re" ('avinu malkenu)2, per sottolineare sia la paternità di Dio che la sua regalità nei confronti degli uomini.

Sono tutte espressioni liturgiche che la tradizione ha conservato fin dai tempi antichi e che già erano in uso ai tempi di Gesù di Nazareth che, non a caso, ne ha confermato l'importanza insegnando ai suoi discepoli come rivolgersi al Signore durante la preghiera (cfr. Mt 6,9-12 e Lc 11,2-4). Tuttavia il testo evangelico del "Padre Nostro" insegnato da Gesù non corrisponde ad una sola preghiera ebraica ma ad una originale sintesi di testi liturgici tradizionali ancora oggi in uso, tra i quali il Qaddish, con cui si "santifica" il Nome impronunciabile di Dio (JHWH). Questo testo ha una prima parte fissa a cui ne segue una seconda variabile, in quanto viene utilizzato in contesti diversi e per questo deve potersi adattare a situazioni sia liete – come nel caso della liturgia quotidiana e delle feste– che tristi come la memoria dei defunti nell'attesa della resurrezione.

Pertanto è possibile ricondurre ogni singola parte del "Padre Nostro" cristiano a momenti diversi della liturgia ebraica. Fra le diverse scelte possibili ne proponiamo alcune che riprendono formule liturgiche e passi biblici particolarmente significativi nell'esperienza di preghiera del popolo di Israele sia del passato che del presente.

 

Padre Nostro che sei nei cieli

Come abbiamo già ricordato l'espressione "Padre nostro" è molto frequente nella preghiera degli ebrei, e ricorre nella liturgia quotidiana che, i più religiosi, celebrano almeno tre volte al giorno. In particolare, al mattino, oltre all'invocazione "Padre nostro" è presente anche l'affermazione solenne: "Tu sei il Signore nostro Dio che sei in cielo e in terra" che ricorre più volte3. Con questa espressione si vuole sottolineare la compresenza nel Nome divino della dimensione trascendente e immanente: Dio infatti è compreso nella Sua totale trascendenza, nel Suo essere "altro" rispetto gli uomini, e per questo non se ne deve pronunziare il Nome, ma al contempo Egli cammina accanto a loro, è presente nella loro storia e interviene per la loro salvezza. È una modalità comprensiva che non utilizza il principio aristotelico di non contraddizione e che, in questo modo, esprime il mistero dell'amore divino capace di incontrare le sue creature nello spazio del tempo e nel farsi della storia.

 

Sia santificato il Tuo Nome

Questa espressione ritorna più volte nel Qaddish, la preghiera di "Santificazione del Nome divino" e in tutte le benedizioni che sottolineano la santità di Dio: "Sia magnificato e santificato il Suo sacro Nome", e ancora: "Rimani con noi, sia magnificato e santificato il Tuo Nome in terra come viene santificato nel più alto dei cieli"4. Vale la pena ricordare che in ebraico esiste un unico termine – ed anche un'unica radice verbale – per esprimere il concetto sia di sacralità, quindi di separatezza, che di santità, ovvero della presenza divina nella storia. Pertanto santificare e consacrare sono due azioni che vengono rese con la stessa espressione, così come sacro e santo vengono espressi dall'unico termine qadosh. Riemerge quindi anche in questo caso la compresenza della dimensione immanente e trascendente che abbiamo già sottolineato.

 

Venga il Tuo Regno

Anche questa è un'invocazione ricorrente nella preghiera del Qaddish dove, santificando il Nome divino impronunziabile, si esprime anche la speranza nell'avvento dei "tempi messianici", cioè nella trasformazione delle contraddizioni storiche in una realtà positiva ove il dolore, la sofferenza e la morte lasciano spazio alla gioia prima storica e poi eterna. Tale speranza è espressa dalle parole: "Possa [il Signore] stabilire il Suo Regno durante la vostra vita e i vostri giorni" 5. E non è detto che tutto ciò debba realizzarsi attraverso un "messia" inviato da Dio6, potrebbe anche essere il risultato di un'azione divina diretta sulla storia. In tale orizzonte ogni azione buona degli uomini – sia ebrei che non ebrei – può accelerarne la realizzazione.

 

Sia Fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra

Accettare consapevolmente e attivamente la volontà divina nella propria storia è l'atteggiamento di uomo giusto che osserva gli insegnamenti rivelati nella Torah. Un esempio al riguardo è l'atteggiamento di Giobbe che vive la sofferenza consapevole del fatto che "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto…" (Gb 1,21). La tradizione rabbinica ha ripreso e sviluppato tale atteggiamento di fede in contesti diversi. A livelli liturgico tutto ciò emerge in maniera particolarmente significativa in una delle preghiere da recitare in punto di morte che, qualora il morente non sia in grado di farlo, vengono recitate dai parenti e dagli amici che lo accompagnano negli ultimi attimi della sua vita mortale: "Che la Tua volontà sia di guarirmi, ma se la mia morte è stabilita da Te la accetterò con amore dalle Tue mani"7. Per questo la tradizione ebraica conosce benedizioni sia per momenti lieti che per quelli difficili, in quanto in ogni occasione della vita, sia felice che triste, è possibile rendere grazie a Dio.

 

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

"Non darmi né povertà ne ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario" (Pro 30,8), così esorta il Libro biblico dei Proverbi, e con parole simili si invoca Dio nella liturgia quotidiana affinché non manchi mai il sostentamento necessario alla vita. In particolare, durante le preghiere penitenziali che precedono la liturgia di Kippur, il giorno del Perdono, si invoca la provvidenza divina dicendo: "O Dio nostro che stai nei cieli, dacci pane secondo la necessità dei nostri bambini"8, rimettendo al centro soprattutto la necessità di chi non è in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento.

Ciò non significa relativizzare il proprio impegno nel lavoro utile per guadagnarsi un giusto salario, ma semmai riconoscersi come amministratori – e non proprietari – delle risorse della terra che devono essere condivise. Pregare in questo modo deve essere uno stimolo verso la giustizia sociale, dove chi ha ricevuto di più si preoccupa delle necessità di chi ha meno e soprattutto di chi è vittima di ingiustizie sociali. La provvidenza deve infatti passare attraverso le mani degli uomini.

 

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Queste parole esprimono con molta forza la dinamica del perdono divino che raggiunge l'uomo pentito delle sue colpe e riconciliato con i suoi fratelli. È la dinamica che deve accompagnare il digiuno di Kippur, in quanto, come precisa un commento rabbinico alla Genesi: "Se tu perdoni al tuo vicino, l'Unico (Dio) perdonerà te, ma se tu non perdoni il vicino, nessuno avrà pietà di te"9. Sempre la tradizione insegna infatti che: "A colui che ha compassione del suo prossimo [e perdona i torti che ha subito] sarà mostrata compassione dal Cielo"10, in quanto "per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo il giorno di Kippur procura il perdono solo se uno si è prima rappacificato con il suo fratello"11. Ciò significa che il pentimento per il male commesso deve essere mostrato da concreti segni di conversione e da gesti di riconciliazione avvenuta, il digiuno da solo non basta così come non bastano i sacrifici; questa è la via per "essere santi" indicata dalla Torah (cfr. Lv 19,2) e confermata anche da Gesù (cfr. Mt 5,23-25 e 48). Tali esortazioni rabbiniche hanno come obiettivo quello di evitare la vendetta e di promuovere la capacità di amare anche i nemici: "Coloro che vengono insultati ma non rispondono con insulti, coloro che si sentono rimproverare e non rimproverano, coloro che fanno [la volontà di Dio] per amore, e coloro che sono felici nell'afflizione, di tutti costoro la Scrittura dice: 'Coloro che Lo amano siano come il sole quando esce nella sua potenza' (Gdc 5,31). Chi dimentica la vendetta, i suoi peccati sono perdonati; quando chiede perdono lo ottiene"12.

 

Non abbandonarci nella tentazione ma liberaci dal male

Ripropongo la conclusione del "Padre Nostro" cristiano secondo una traduzione più aderente all'originale greco dei Vangeli13, che non solo evidenzia meglio la vicinanza e la paternità di Dio anche nel momento della prova, ma presenta una significativa ripresa di una formula liturgica ebraica confluita nel Talmud Babilonese: "Non abbandonarmi al potere del peccato, né al potere della colpa, né al potere della tentazione, né al potere della vergogna"14. L'amore di Dio per gli uomini si mostra quindi anche nella Sua vicinanza nel momento della prova e della tentazione, quando il rischio di peccare allontanandosi da Suoi insegnamenti diventa maggiore. Non a caso la tradizione rabbinica definisce Dio come "Colui che cerca l'uomo"15, sia per coinvolgerlo nell'esperienza di Alleanza che per farlo ritornare a Lui quando non riesce a scegliere il bene. Numerose sono infatti le testimonianze bibliche al riguardo, fra le quali possiamo ricordare le parole finali del Salmo 139: "Vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita" (Sal 139,24).

 

Per concludere

Anche se con formule liturgiche diverse ebrei e cristiani si rivolgono a Dio chiamandolo "Padre Nostro", ed è solo nel contesto della tradizione ebraica che quella cristiana può riscoprire e comprendere le radici di una preghiera teocentrica di grande spessore ecumenico. Una maggior consapevolezza di questo, su entrambi i versanti, aiuterebbe sicuramente a riscoprire meglio la comune figliolanza nell'Unico Padre, Dio di Israele rivelatosi anche in Gesù di Nazareth.

 Via Marsala 26/d

26841 Casalpusterlengo (LO)

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Note bibliografiche

Siddur haShallem, a c. di rav S.J. Sierra e rav S. Bekhor, Mamash, Milano 1996

Tefillot Jom Kippur, a c. di D. Di Segni, Marietti, Torino 1966

M. BEUX JÄGER, Padre Nostro. Una preghiera ebraica, Zamorani, Torino 2012

C. DI SANTE, La preghiera di Israele, Marietti, Casale M. (AL) 1985

J. HEINEMANN, La preghiera ebraica, Qiqajon, Magnano (VC) 1986

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1 Cfr. Siddur haShallem, a c. di rav S.J. Sierra e rav S. Bekhor, Mamash, Milano 1996, pp.118-119.

2 Cfr. Tefillot Jom Kippur, a c. di D. Di Segni, Marietti, Torino 1966, pp. 13-15, Siddur haShallem, cit., pp. 140-143.

3 Cfr. Siddur haShallem, cit., pp. 22-142.
4 Cfr. Siddur haShallem, cit., pp. 72-73.

5 Cfr. Siddur haShallem, cit., pp. 72-73.
6 Dal punto di vista ebraico l'eventuale messia è inviato da Dio ma non può avere caratteristiche divine.
7 Cfr. C. DI SANTE, La preghiera di Israele, Marietti, Casale M. 1985, p. 24.

8 Cfr. Tefillot Jom Kippur, cit., pp. 43-46.
9 Le parole sono tratte dal midrash Tanchuma. Cfr. C. DI SANTE, La preghiera di Israele, cit., p. 23.
10 Talmud Babilonese, Shabbath 151b. Il Talmud Babilonese raccoglie le discussioni rabbiniche sulla Torah scritta e sulla Torah orale codificata nella Mishnah attorno al primo secolo dell'era attuale. La redazione del Talmud Babilonese si conclude attorno al VI-VII secolo dell'era attuale; esiste anche una redazione palestinese conclusasi qualche tempo prima.
In entrambi i casi si tratta di fonti rabbiniche nelle quali confluiscono tradizioni orali molto antiche e spesso precedenti alla predicazione di Gesù di Nazareth.
11 Mishnah, Jomah VIII,9.

12 Talmud Babilonese, Jomah 23a.
13 La versione più nota e solitamente usata nelle comunità cristiane è: "non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male".
14 Talmud Babilonese, Berakhot 60b.
15 Interessante al riguardo il saggio di A.J. HESCHEL, Dio alla ricerca dell'uomo, Borla, Roma 1983.