mercoledì 10 marzo 2021

LE DONNE CONTRO LA 'NDRANGHETA

 

Le donne coraggio contro la


 ‘ndrangheta


Con il nostro giornale e l’Espresso il libro di Lirio

 Abbate sulle "fimmine ribelli" che hanno detto

 no alle  cosche calabresi


Ha provato a uccidersi due volte per sfuggire a quella vita che è già diventata la sua prigione prima di finire in cella, ma è dietro le sbarre che Giusy pensa al futuro dei suoi tre figli: «Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomini di ‘ndrangheta e saranno costrette a seguirli». 

Giusy Pesce non è una donna di ‘ndrangheta qualsiasi, è figlia e nipote dei mammasantissima di Rosarno, ma come tutte le altre donne di Calabria che nascono e crescono in un ambiente intriso di mafia condivide lo stesso destino infame: “fidanzata” a 13 anni con un ragazzo del clan, rinchiusa in casa con il permesso di uscire solo con la madre o la sorella, la classica “fuitina” con il promesso sposo per non attendere la maggiore età, la prima gravidanza insieme alle prime botte in casa e poi tanta solitudine, tre bambini da crescere sola sotto l’opprimente cappa di controllo della famiglia. 

E quando gli uomini di casa finiscono in carcere, l’obbligo di diventare messaggera di ordini di morte e cassiera dei soldi del clan. Un destino da cui si può uscire con la morte, per mano dei propri familiari, implacabili nel punirti se solo ti innamori di un altro o se aspiri ad una vita normale. È più facile morire piuttosto che trovare il coraggio di dire no. Se non fosse per i figli. Sono loro il potentissimo motore del coraggio che ha fatto sì che anche la Calabria dovesse cominciare a fare i conti con un sempre più nutrito drappello di “fimmine ribelli”. 

È il titolo del libro di Lirio Abbate da oggi in edicola con Repubblica e L’Espresso.

Un racconto delle storie di giovani donne, forti e coraggiose, che hanno trovato la forza di ribellarsi e denunciare padri, mariti e fratelli, minando dall’interno il loro mondo di prepotenza e omertà e restituendo a loro stesse e a tante altre come loro il diritto di scegliersi la vita, di vivere l’amore, di dare un futuro ai loro figli strappandoli a un destino arcaico che si rinnova negli anni sempre uguale. 

«Madri, mogli, sorelle schiacciate da leggi arcaiche e retrive che fanno pagare il tradimento con la vita. Perché ancora oggi ci sono vittime di una brutalità antica che ha cambiato volto ma resta atavica nella sua ferocia atavica: il delitto d’onore. Nel ventunesimo secolo, come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste ancora il codice che punisce con la morte il tradimento femminile», scrive Abbate.

Lo dice chiaramente Maria Concetta Cacciola, anche lei 30 anni e tre figli, condannata a morte dalla sua famiglia per aver tradito il marito. «Mio padre ha due cuori, la figlia e l’onore. In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto». E se non possono più avere le figlie ribelli provano a tenersi i nipoti, a ricattarle portandogli via quello che più conta per loro. 

È stato così per Rosa, per Simona, persino per Elvira Muborakshina, giovane russa finita nella rete del clan Pesce dopo aver conosciuto a Milano la loro testa di ponte per gli affari.

L’auspicio è che sia proprio il coraggio di queste “fimmine ribelli” a salvare la Calabria dalla ‘ndrangheta. Lasciano ben sperare le parole usate da due giovanissime, Annarita Molè e Roberta Bellocco, 17 anni, figlie di due boss, il primo ucciso, l’altro detenuto, vincitrici di un concorso a scuola sulla legalità: «Ognuno deve avere una seconda possibilità — scrivono — scegliere di cambiare è un dovere. Essere ‘ndranghetisti non conviene».


Alessandra Ziniti, La Repubblica 4 marzo