Le devastanti distruzioni del corpo urbano di Gaza
Francesco Chiodelli
Il Manifesto
04.06.2021
La
guerra a Gaza non è finita il 21 maggio 2021, così come non era
iniziata 12 giorni prima. In una sorta di reinterpretazione
contemporanea di tante guerre del passato, il conflitto a Gaza è infatti
composto da lunghi periodi di assedio intervallati da brevi fasi di
combattimento.
È INIZIATO NEL GIUGNO
2007 – quando Israele ed Egitto hanno deciso il blocco della Striscia a
seguito della presa di potere di Hamas – ed è tutt’ora in corso. Ha
avuto quattro recrudescenze guerreggiate: i bombardamenti israeliani
delle settimane scorse sono stati infatti preceduti da operazioni
militari simili nel 2014, nel 2012 e nel 2008-2009.
Le
devastanti distruzioni del corpo urbano della Striscia causate da tali
operazioni militari, unite all’impossibilità di una rapida ricostruzione
causata dal blocco, sono la caratteristica centrale di questo stato di
guerra permanente a Gaza, il cui esito è un vero e proprio urbicidio.
Urbicidio non è solo la distruzione materiale delle infrastrutture
basilari della vita urbana (case, scuole, negozi, fabbriche, ospedali)
durante i bombardamenti. È il mantenimento della Striscia in una
condizione di perenne devastazione e annichilimento fisico (post)bellico
conseguente all’estrema difficoltà di ricostruire ciò che viene
distrutto.
L’immagine della guerra è così, da 14 anni, parte
dell’ordinarietà della vita degli abitanti di Gaza, poiché segna
indelebilmente ogni frammento del paesaggio urbano e, di conseguenza,
della vita quotidiana (abitare, andare a scuola o al lavoro, fare la
spesa). Enormità della distruzione e impraticabilità della ricostruzione
sono le due facce dell’urbicidio di Gaza.
ENORMITÀ
DELLA DISTRUZIONE. Le recenti operazioni militari israeliane sono state
meno distruttive delle precedenti. Secondo le Nazioni Unite sono state
distrutte circa 1.150 abitazioni (1.000 quelle gravemente danneggiate).
A
essere colpite sono state anche 58 scuole e 27 strutture sanitarie (tra
cui l’unico laboratorio per le analisi COVID della Striscia).
Nel
2008-2009 a essere danneggiate o distrutte erano state 60.000
abitazioni.
Nel 2012 10.000.
Nel 2014 171.000, di cui 18.000 rase al
suolo o rese inabitabili. A ciò si aggiungono strutture produttive e
commerciali. E innumerevoli servizi e infrastrutture pubbliche – di modo
che oggi solo il 5% dell’acqua di Gaza è potabile e l’elettricità viene
fornita solo per alcune ore al giorno.
Le
devastazioni causate dagli attacchi israeliani emergono in tutta la
propria enormità se vengono rapportate a cosa è la striscia di Gaza: un
fazzoletto di terra, pari a un quarto della superficie del comune di
Roma.
Su questo fazzoletto di terra si accalcano più di 2 milioni di
persone, per lo più poverissime. Il livello di povertà nella Striscia è,
infatti, cresciuto dal 40% del 2007 al 56% del 2017 (secondo le Nazioni
Unite, in assenza del blocco e dei conflitti militari, tale livello di
povertà nel 2017 sarebbe stato del 15%).
Impraticabilità
della ricostruzione.
Di fronte a distruzioni così enormi, ovunque la
ricostruzione sarebbe difficoltosa. A Gaza, però, diviene impraticabile.
LA
POPOLAZIONE e le istituzioni della Striscia non hanno infatti risorse
economiche endogene sufficienti a promuovere la ricostruzione – che, di
conseguenza, dipende interamente da finanziamenti internazionali (spesso
promessi, ma non sempre effettivamente erogati). E non hanno nemmeno le
indispensabili risorse materiali, ossia mezzi e materiali da
costruzione.
Israele, infatti,
controlla, filtra e limita tutto ciò che può entrare nella Striscia.
Materiali da costruzione inclusi, con la giustificazione che potrebbero
essere utilizzati a scopi bellici. Gli abitanti di Gaza hanno supplito
con la creatività, per esempio ricavando materiali da costruzione dalle
macerie. Nei periodi in cui sono stati percorribili, hanno inoltre
utilizzato i famigerati tunnel per far giungere nella Striscia un
quantitativo consistente di materiali da costruzione.
È
TUTTAVIA EVIDENTE come queste soluzioni non possano sostenere un
processo di ricostruzione sistematico e tempestivo, di modo che ogni
bombardamento aggiunge nuove macerie a ciò che ancora non era stato
ricostruito, in una spirale di crescente annichilimento dello spazio
urbano. Tutto ciò avviene sullo sfondo di una situazione paradossale:
Hamas e Israele, belligeranti sul campo, sono uniti nel beneficiare
economicamente da questa pur complicata ricostruzione finanziata
dall’estero.
Secondo alcuni studi, più del 70% degli aiuti
internazionali destinati all’autorità palestinese sono finiti
nell’economia israeliana (si tenga presente che sono israeliane le
aziende che controllano la quasi totalità del ciclo del cemento in
Israele e Palestina). Da parte sua, Hamas intercetta parte dei
finanziamenti per la ricostruzione.
Per
ovviare a questo problema, dopo il conflitto militare del 2014 è stato
ideato uno specifico meccanismo di gestione dei finanziamenti
internazionali (il cosiddetto Gaza Reconstruction mechanism), che, però,
ha rallentato ulteriormente la ricostruzione (a due anni dai
bombardamenti del 2014, solo l’11% delle abitazioni distrutte era stato
ricostruito). Al contempo, non ha impedito che siano stati soprattutto
persone, gruppi e imprese vicine ad Hamas a guidare una parte
ragguardevole della ricostruzione nella Striscia.
E
così, anche se oggi le bombe tacciono e i riflettori dell’attenzione
pubblica si sono spenti, l’urbicidio di Gaza continua in silenzio, in
una spirale di drammaticità crescente alla quale la comunità
internazionale non sembra potere (o volere) mettere fine.
*Università degli studi di Torino