domenica 6 giugno 2021

NON C'E' GIUSTIZIA NEL MONDO ARABO

 MORTI PER “STANCHEZZA”

Non c’è giustizia nel mondo arabo. Questo è l’assunto che dobbiamo tenere a mente quando ci affacciamo alla sponda sud del Mediterraneo. Ed è bene che questo teorema sia scolpito nel pensiero di chi, come mero alto di scherno, prova a paragonare la magistratura italiana a quella di un Paese arabo dove vige una dittatura.

Sono parole forti ma che sono necessarie per non perdere la bussola e per comprendere quanto siamo fortunati, perché la peggiore delle democrazie è sempre meglio della migliore delle dittature. In Medioriente non c’è giustizia, perché se ci fosse si scriverebbe una storia in cui i colpevoli sono colpevoli e gli innocenti vittime. Invece accade che i ruoli vengano spesso invertiti: dittatori sanguinari diventano filantropi amici degli Stati democratici d’Europa. Piccole morti, intendo quelle della gente comune uccisa sotto tortura, diventano eventi del tutto trascurati. Il problema surge quando in quegli ingranaggi ben oliati dal sangue delle vittime ci finisce un europeo, come Regeni, che ci desta dal nostro assopimento. Vediamo tutto il dramma e la brutalità di Stati dove l’arresto è arbitrario e la tortura sistematica. tribunali sono aule dove vengono emesse sentenze di morte o, addirittura, vengono eseguite seduta stante.

Accadde più o meno così a Mustafa, mio cugino. Arrestato a un posto di blocco nei pressi di Homs, città capoluogo sulla costa siriana, scompare inghiottito dalle carceri dove altre decine di migliaia di persone sono scomparse. L’accusa? Sostegno alla rivolta. La verità? Un delatore lo taglieggiava. Mustafa non paga, non ha soldi e allora scatta la vendetta: denunciato. Circa un anno e mezzo dopo essere stato inghiottito dal buio, un uomo in cella con lui bussa alla porta di casa. Dice poche cose ma ruba ogni speranza. “È morto. Un poliziotto gli ha tirato una manganellata sulla testa ed è morto sul colpo, nell’aula del tribunale”. Non sappiamo se è vero, non c’è mai certezza, perché le fonti sono poche. È il destino di ogni desaparecido. Il corpo, comunque, non verrà mai restituito. Rimaniamo fedelmente in attesa di un certificato di molte “per stanchezza” - questa la formula utilizzata -, uno delle migliaia che le autorità di Damasco mandano alle famiglie in attesa di ricevere notizie. Così, senza corpo non ci può essere giustizia, né un funerale. Rimane sempre l’attesa. Non accade da oggi, ma da decenni. Farajallaj al Helou, comunista libanese, viene mandato nel 1959 in Siria per monitorare la situazione dei compagni siriani. Viene arrestato, probabilmente venduto da Khalid Bakdash, capo dei comunisti in Siria, a causa della crescente influenza di Helou. Prima viene torturato fino alla morte; i resti del corpo sciolti nell’acido vengono poi riversati in un fiume, il Barada, che scorre nella città vecchia di Damasco. Giustizia? Nessuna. Questa assenza non ha fatto altro che creare un filone della letteratura araba dal nome adab al sujun, letteratura delle carceri, che ha prodotto decine e decine di testimonianze di sopravvissuti all’orrore. A leggerli si rischia di non credere a nulla: troppo assurdi i loro racconti. Come quello di Micheal Kilo, cristiano siriano, per molti anni incarcerato perché comunista e attivista non violento. “Vidi un bambino in carcere - raccontò durante una delle ultime interviste - Era piccolo e provai a fischiettare il cinguettio di un uccellino. Allora il bambino mi chiese che cosa era un uccellino e io provai a spiegarglielo. Era nato lì, quel bambino, fra quelle quattro mura e non aveva mai visto il cielo”.


Shady Hamadi, FQ MILLENNIUM maggio 2021