mercoledì 23 giugno 2021

Uniti nella lotta


Nella giungla dell'est della Birmania i manifestanti nati e cresciuti  nelle città si preparano alla guerra", scrive Frontier Myanmar. Dopo mesi di proteste in cui i manifestanti disarmati hanno affrontato i lacrimogeni e i proiettili del Tatmadaw (l'esercito), centinaia di giovani hanno raggiunto le regioni periferiche controllate dalle milizie delle minoranze etniche per imparare a usare le armi.

Il golpe militare è riuscito a unire quasi tutti i birmani - la maggioranza bamar e buddista, le minoranze etniche che da decenni sono in guerra con il Tatmadaw, e quasi tutti i partiti politici - contro un nemico comune: la giunta del generale Min Aung Hlaing. È possibile che questa situazione inneschi la rivoluzione necessaria a realizzare finalmente un vero sistema federale, previsto dalla costituzione del 1947 ma rimasto finora lettera morta? Con 15 etnie principali e 135 sottogruppi, le divisioni nella società birmana sono antiche e radicate, ma la mentalità sta cambiando. I giovani scesi in piazza contro l'esercito e quelli pronti a imbracciare le armi si battono per la Birmania, non per il proprio gruppo etnico.

Nel frattempo, alcune minoranze armate che avevano siglato un cessate il fuoco con il Tatmadaw hanno ripreso a combattere, e molti esperti temono una guerra civile che potrebbe rendere il paese uno "stato fallito". Ma il giornalista Carlos Sardiña Galache, esperto di Birmania, scrive sulla New Left Review che "queste affermazioni sono storicamente miopi perché la Birmania non ha mai avuto uno 'stato funzionante'. Fin dall'indipendenza nel 1948, l'esercito ha intrapreso varie guerre civili contro le minoranze etniche che vivono ai suoi confini. Ora sta portando nelle regioni centrali, dove vive la maggioranza bamar, le tattiche brutali che ha usato per decenni in quelle guerre, senza distinguere tra civili e combattenti armati. Ma questa violenza ha scopi diversi a seconda dei destinatari: i bamar sono uccisi per quello che fanno (opporsi all'autorità dell'esercito); i membri delle minoranze per quello che sono (parte di un progetto di dominio politico che prevede la loro assimilazione culturale); e i rohingya (considerati intrusi arrivati dal Bangladesh) solo perché sono in Birmania. Grazie a questa esperienza di repressione condivisa, molti bamar stanno sviluppando un nuovo senso di solidarietà con le minoranza etniche (a volte anche con i rohingya), mentre in stati come il Kachin, il Chin e il Kayin le minoranze etniche si uniscono alla resistenza civile". Sardiña Galache afferma che nessuno, però, vuole tornare alla situazione precedente al golpe, cioè "al fragile patto tra due élite dominate dai bamar: il Tatmadaw e il vecchio campo filodemocratico guidato dalla Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi". Il patto, spiega, si e sciolto dopo le elezioni del novembre 2020, in cui l'Lnd ha stravinto, ed é tramontato con il golpe del 1 febbraio.

"Dopo dieci anni di democrazia a guida militare è chiaro che le divergenze tra le due élite non sono ideologiche: hanno idee simili sul paese, dalla questione dell'identità nazionale (che esclude i rohingya) e dell'unità nazionale basata sulla supremazia bamar al modello di progresso neoliberista che ignora le masse povere e mantiene le disuguaglianze create da un'economia estrattiva controllata in gran parte dall'esercito e dai suoi sodali. Le tensioni tra il Tatmadaw e l'Lnd riguardano il potere, non come usarlo. Negli anni della transizione la strategia dell'Lnd di impegnarsi con i militari ha fatto allontanare molte persone dalla politica, in particolare la classe media emergente: Aung San Suu Kyi ha convinto molti sostenitori che le politiche partecipative avrebbero messo a rischio i suoi tentativi di placare i militari. Ma con il golpe sono emersi nuovi movimenti che l'Lnd aveva per lo più ignorato e che guidano la disobbedienza civile". Il conflitto tra le élite è diventato una guerra tra i militari e l'intera popolazione.

L'unica possibilità di tener testa all'esercito, scrive Sardiña Galache, è che si formi un fronte unito di guerriglieri di tutti i gruppi etnici, anche se richiederebbe il superamento di profonde diffidenze storiche.


Internazionale, 11 giugno 2021