mercoledì 29 settembre 2021

QUANDO LA MERCE VALE PIU' DELLE PERSONE

Se la merce conta più delle persone

Marco Revelli

La Stampa 29/9

Abbiamo finito le parole per commentare, deprecare, piangere le morti sul lavoro. Le abbiamo finite perché sono diventate vuote, evanescenti, se ogni giorno ci ripresenta la stessa catena luttuosa, diversa nei nomi delle vittime e delle imprese, ma uguale nell'apparente inarrestabilità dei casi. Ieri è toccato a due lavoratori del milanese, morti nel modo più atroce, trasformati in statue di ghiaccio nell'ospedale Humanitas, in un luogo ad alta tecnologia, non nel capannone rugginoso di una impresa marginale, fatto per curare non per morire così. Quasi contemporaneamente altre due vittime, nel torinese e nel padovano, proprio nel giorno in cui, come dicono le cronache, il governo ha annunciato "il giro di vite sulla sicurezza nei luoghi di lavoro" con "alcuni interventi di immediata realizzabilità in materia di tutela della sicurezza e della salute", quali "la razionalizzazione delle competenze in materia di ispezione, la costituzione di una banca dati unica delle sanzioni" e il "potenziamento delle norme sanzionatorie". Buone intenzioni, certo, ma che sembrano il classico scoglio per fermare il mare.

In realtà viviamo avvolti in una rete di provvedimenti, codici e codicilli, finalizzati alla "sicurezza sul lavoro". Lo sa chi deve gestire un'impresa, sia pur piccola o piccolissima, ma anche un Centro culturale, un minimarket, una biblioteca fosse anche di quartiere, una filodrammatica, una palestra o uno studio medico, e si trova impaniato in un'infinità di protocolli procedure e incombenze spesso solo formali, dalla nomina del responsabile della sicurezza alla frequentazione di una miriade di corsi per il personale, utili spesso solo a chi li somministra. Mentre intanto intorno si continua a morire, per una macchina orditrice manomessa, una fresatrice modificata, un sifone difettoso, un ponteggio mal fissato, una cisterna non controllata, un carico non ben fissatoNon si muore tanto "sul lavoro", si muore "di lavoro" perché troppo spesso conta più il prodotto del produttore, il risultato più che il modo per raggiungerlo, le cose la quantità di cose - più che la vita delle persone.

Certo, si dovrebbe e potrebbe aumentare il numero degli ispettori del lavoro per moltiplicarne gli interventi. Accrescere sensibilità e bagaglio culturale di datori di lavoro e dipendenti. Irrigidire le sanzioni per chi trasgredisce le più elementari norme di sicurezza. Ma forse sarebbe opportuno andare più a fondo sulle cause della mattanza. Scandagliare più attentamente le ragioni di questa moltiplicazione delle vittime (a volte fattesi carnefici di se stesse, come nel caso del piccolo imprenditore morto ieri nel proprio capannone cadendo da una scala). E chiederci se alla base non ci sia direttamente il male più profondo del nostro tempo: la fretta. La condanna a correre anche se può costare caro. L'ansia, fattasi angoscia, dell'accelerazione per fare più velocemente oggi che ieri, per "crescere" di più, per "performare" di più, per guadagnare di più…

Forse una vera "politica della sicurezza" dovrebbe passare, oggi, per la scoperta del valore esistenziale di un uso consapevole e riflessivo del tempo, che lo sottragga all'abuso dissennato che troppo spesso se ne fa ignorando la saggezza atavica degli antichi che ritenevano, appunto, che il tempo appartenga al Dio più che agli uomini, e che per questo vada rispettato, pena la sua cruenta vendetta.