di
Luigi Manconi
Il ricorso
presentato dal governo italiano contro la sentenza della Corte
europea dei diritti umani del 13 giugno 2019 è stato dichiarato
inammissibile.
In quella pronuncia, si sostiene che l’ergastolo
ostativo è in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea
dei diritti umani, che vieta in modo assoluto trattamenti inumani o
degradanti. Il che corrisponde, nella sua sostanza più profonda, al
contenuto dell’articolo 27 della nostra Carta Costituzionale.
E,
invece, a sentire una certa propaganda (triviale, ma, riconosciamolo,
efficace), opporsi alla misura dell’ergastolo ostativo
significherebbe, più o meno, “aiutare la mafia”.
Ne consegue che
la sentenza della Cedu finisce per essere intesa come una sorta di
“concorso esterno”, e coloro che la condividono sono presentati
come fiancheggiatori in doppiopetto di mafia, ‘ndrangheta, camorra
(e, per non farci mancare nulla, della Sacra Corona Unita).
Poco
importa se a condividere le argomentazioni che hanno determinato la
decisione della Cedu siano, tra gli altri, fior di giuristi e
galantuomini come Giostra, Pugiotto, Galliani, Palazzo, Dolcini e tre
presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Onida, Flick,
Silvestri).
Ma
cos’è l’ergastolo ostativo? È quella forma di pena perpetua che
non consente al condannato, anche in presenza di prove certe di
riabilitazione, il ritorno alla vita sociale dopo un congruo periodo
di tempo.
Di conseguenza i condannati per alcuni reati di particolare
gravità, come mafia o terrorismo, non possono essere ammessi ai
“benefici penitenziari”, né alle misure alternative alla
detenzione, e, in particolare, alla liberazione condizionale. Sono
sottoposti a tale regime quei reclusi che non hanno collaborato con
le indagini della magistratura (a eccezione dei casi in cui si sia
resa “comunque impossibile un’utile collaborazione con la
giustizia”).
Le
ragioni che inducono tanti — Federico Cafiero De Raho, Sebastiano
Ardita, Piero Grasso, Nino Di Matteo e altri — a sostenere la
necessità irrevocabile dell’ergastolo ostativo sono in parte
motivate e si affidano soprattutto agli effetti dell’allarme
sociale che le organizzazioni criminali tutt’ora suscitano (e
comprensibilmente). Ma non è affatto detto che lo strumento scelto
sia quello più adeguato, oltre che capace di rispondere ai parametri
di tutela dei diritti fondamentali della persona.
Vale
in qualche modo quello che può dirsi a proposito del regime speciale
di 41 bis. Esso non è stato istituito per realizzare un “carcere
duro”, maggiormente afflittivo e punitivo, ma perché perseguisse
un unico scopo. Quello di recidere i legami tra condannato e
organizzazione criminale esterna. Non diversa è la motivazione
originaria dei limiti che la legislazione antimafia ha imposto ai
benefici penitenziari. Quella, cioè, di impedire ai detenuti,
dimostratisi tutt’ora socialmente pericolosi, di continuare a
delinquere una volta usciti dal carcere. Anche in questo caso la
norma perseguiva la maggiore efficacia e non la massima crudeltà; e,
in ogni caso, non dovrebbe confliggere con l’articolo 27 della
nostra Carta, dove si afferma che “le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato”. Cosa impossibile, va da sé, se il
fine pena è “mai”.
Entrambe
le misure (ergastolo ostativo e 41bis) nascono come provvedimenti
straordinari per stati d’eccezione (com’era considerata l’Italia
nei primi anni ’90, dopo gli assassinii di Giovanni Falcone,
Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta) e
tutt’e due le norme, nate come misure di emergenza, sono diventate,
col tempo, permanenti. Le legittime preoccupazioni di chi teme che,
di un’eventuale abolizione dell’ergastolo ostativo, possano
usufruire i capi delle mafie, vanno prese sul serio, ma la risposta
giusta dovrebbe essere un’altra: quella di verificare, nella
maniera più rigorosa, la sussistenza dello stato di pericolosità
sociale; e, nel caso di continuità di esso, protrarre la detenzione.
E così di consentire al giudice, anche in questa circostanza, di
giudicare. Si tratta di passare, dunque, da un dispositivo automatico
a un giudizio analitico, che non escluda alcuno, preventivamente —
ma in realtà, definitivamente — dalla possibilità di
emancipazione dal crimine. Questa opportunità forse riguarderà
pochi tra i responsabili delle stragi e dei grandi delitti, ma
dimostrerà, in maniera inequivocabile, la superiorità giuridica e
morale dello stato di diritto rispetto ai suoi nemici giurati.
P.s. Uno
dei più insidiosi luoghi comuni sostiene che “in Italia nessuno
sconta l’ergastolo fino alla fine”. Le cose non stanno così. A
oggi gli ergastolani sono 1790 (e tra essi molti muoiono in cella). E
i sottoposti a “ergastolo ostativo” sono 1255.
La
Repubblica 9/10