mercoledì 9 ottobre 2019

SE LA FINE PENA (NON) E' MAI

di Luigi Manconi

Il ricorso presentato dal governo italiano contro la sentenza della Corte europea dei diritti umani del 13 giugno 2019 è stato dichiarato inammissibile. 
In quella pronuncia, si sostiene che l’ergastolo ostativo è in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta in modo assoluto trattamenti inumani o degradanti. Il che corrisponde, nella sua sostanza più profonda, al contenuto dell’articolo 27 della nostra Carta Costituzionale. 
E, invece, a sentire una certa propaganda (triviale, ma, riconosciamolo, efficace), opporsi alla misura dell’ergastolo ostativo significherebbe, più o meno, “aiutare la mafia”. 
Ne consegue che la sentenza della Cedu finisce per essere intesa come una sorta di “concorso esterno”, e coloro che la condividono sono presentati come fiancheggiatori in doppiopetto di mafia, ‘ndrangheta, camorra (e, per non farci mancare nulla, della Sacra Corona Unita). 
Poco importa se a condividere le argomentazioni che hanno determinato la decisione della Cedu siano, tra gli altri, fior di giuristi e galantuomini come Giostra, Pugiotto, Galliani, Palazzo, Dolcini e tre presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Onida, Flick, Silvestri).
Ma cos’è l’ergastolo ostativo? È quella forma di pena perpetua che non consente al condannato, anche in presenza di prove certe di riabilitazione, il ritorno alla vita sociale dopo un congruo periodo di tempo. 
Di conseguenza i condannati per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possono essere ammessi ai “benefici penitenziari”, né alle misure alternative alla detenzione, e, in particolare, alla liberazione condizionale. Sono sottoposti a tale regime quei reclusi che non hanno collaborato con le indagini della magistratura (a eccezione dei casi in cui si sia resa “comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”).
Le ragioni che inducono tanti — Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Piero Grasso, Nino Di Matteo e altri — a sostenere la necessità irrevocabile dell’ergastolo ostativo sono in parte motivate e si affidano soprattutto agli effetti dell’allarme sociale che le organizzazioni criminali tutt’ora suscitano (e comprensibilmente). Ma non è affatto detto che lo strumento scelto sia quello più adeguato, oltre che capace di rispondere ai parametri di tutela dei diritti fondamentali della persona.
Vale in qualche modo quello che può dirsi a proposito del regime speciale di 41 bis. Esso non è stato istituito per realizzare un “carcere duro”, maggiormente afflittivo e punitivo, ma perché perseguisse un unico scopo. Quello di recidere i legami tra condannato e organizzazione criminale esterna. Non diversa è la motivazione originaria dei limiti che la legislazione antimafia ha imposto ai benefici penitenziari. Quella, cioè, di impedire ai detenuti, dimostratisi tutt’ora socialmente pericolosi, di continuare a delinquere una volta usciti dal carcere. Anche in questo caso la norma perseguiva la maggiore efficacia e non la massima crudeltà; e, in ogni caso, non dovrebbe confliggere con l’articolo 27 della nostra Carta, dove si afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cosa impossibile, va da sé, se il fine pena è “mai”.
Entrambe le misure (ergastolo ostativo e 41bis) nascono come provvedimenti straordinari per stati d’eccezione (com’era considerata l’Italia nei primi anni ’90, dopo gli assassinii di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta) e tutt’e due le norme, nate come misure di emergenza, sono diventate, col tempo, permanenti. Le legittime preoccupazioni di chi teme che, di un’eventuale abolizione dell’ergastolo ostativo, possano usufruire i capi delle mafie, vanno prese sul serio, ma la risposta giusta dovrebbe essere un’altra: quella di verificare, nella maniera più rigorosa, la sussistenza dello stato di pericolosità sociale; e, nel caso di continuità di esso, protrarre la detenzione. 
E così di consentire al giudice, anche in questa circostanza, di giudicare. Si tratta di passare, dunque, da un dispositivo automatico a un giudizio analitico, che non escluda alcuno, preventivamente — ma in realtà, definitivamente — dalla possibilità di emancipazione dal crimine. Questa opportunità forse riguarderà pochi tra i responsabili delle stragi e dei grandi delitti, ma dimostrerà, in maniera inequivocabile, la superiorità giuridica e morale dello stato di diritto rispetto ai suoi nemici giurati.
P.s. Uno dei più insidiosi luoghi comuni sostiene che “in Italia nessuno sconta l’ergastolo fino alla fine”. Le cose non stanno così. A oggi gli ergastolani sono 1790 (e tra essi molti muoiono in cella). E i sottoposti a “ergastolo ostativo” sono 1255.

La Repubblica 9/10