da Domani del 07/11/2025
Se ai giornalisti è vietato indagare sui potenti
di Emiliano Fittipaldi
I giornalisti d’inchiesta sono pagati dal proprio editore (e indirettamente dai loro lettori) per svelare i segreti dei potenti. Dei governanti, dei politici, degli imprenditori con un ruolo pubblico, di leader nazionali o locali, di chiunque – di fatto – ricopra incarichi che hanno a che fare con le istituzioni. Un disvelamento che permette ai cittadini di essere informati, in modo da poter scegliere ogni giorno – e nel momento decisivo del voto – chi premiare e chi no nell’esercizio democratico.
Ora la procura di Roma, che ha indagato sulla fuga di notizie da parte del tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano, in servizio fino alle prime indagini svolte dai pm di Perugia presso la procura nazionale antimafia, accusa tre giornalisti, attualmente a Domani, di aver fatto quello per cui vengono stipendiati: trovare notizie di interesse pubblico, verificarle con fonti autorevoli, fare riscontri, pubblicarle a beneficio dei lettori e non tenerle nel cassetto come volgari ricattatori.
Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Nello Trocchia rischiano fino a nove anni di carcere perché, in concorso con la presunta fonte, avrebbero commesso accesso abusivo al fine di commettere «rivelazione di segreto», con l’aggravante (infamante) che la pubblicazione di articoli (e un libro) li avrebbe portati ad avere «un indebito profitto patrimoniale, remunerato anche per numero di pubblicazioni».
Un teorema che mette in discussione – di fatto – la pubblicazione di qualsiasi notizia considerata segreta dal codice penale, ma che umilia la funzione principale dei giornalisti, che in teoria dovrebbero essere stipendiati per raccontare le pieghe del potere, e non solo per pubblicare le note di agenzia di ministri e parlamentari che – mai come sotto questo esecutivo di estrema destra – non vogliono inchieste, né domande scomode.
CACCIA ALLA FONTE
Non solo, l’inchiesta della magistratura (ma i pm non erano a favore della stampa e contro le destre, cara Giorgia Meloni?) crea un precedente preoccupante: quello della caccia e dell’individuazione della fonte dei giornalisti. Una pratica che, secondo il Media Freedom Act approvato lo scorso agosto dall’Unione europea, devasta l’indipendenza dei media e aumenta la difficoltà per i cronisti (insieme alle minacce, le querele temerarie, le richieste di risarcimento milionarie, le leggi bavaglio sulle intercettazioni) di fare il loro lavoro, e per l’opinione pubblica di essere informata.
Secondo l’Ue, le autorità dei paesi membri non potrebbero usare arresti, sanzioni, perquisizioni o altri metodi coercitivi per costringere i giornalisti a rivelare le loro fonti. In questo caso specifico, la difesa dei colleghi non sarà agevole. Solo per fare un esempio banale, nel caso della vicenda dei redditi del ministro Guido Crosetto, la notizia non è arrivata da Striano, ma, per difendersi dalle accuse errate, all’eventuale processo il giornalista dovrebbe essere costretto a svelare la sua fonte originaria, comportamento eticamente e deontologicamente inaccettabile.
In un paese dove sotto le case dei giornalisti come Sigfrido Ranucci mettono le bombe, dove direttori di siti (Fanpage) che hanno svolto inchieste sul governo sono spiati da spyware ufficialmente in mano solo ai servizi segreti controllati da Palazzo Chigi, il rischio di processi penali è l’ennesimo campanello d’allarme di una democrazia malata.
Soprattutto quando sono i governanti (in questo caso Crosetto, che non ha mai smentito di aver incassato milioni dalle industrie delle armi prima di diventare ministro della Difesa, nonostante lui stesso avesse segnalato l’evidente inopportunità) a chiedere ai magistrati la caccia alla fonte.
La riforma della giustizia, sottoposta a referendum, peggiorerà l’andazzo: la divisione tra magistratura giudicante e requirente, nonostante l’articolo 104 della Costituzione sull’autonomia dei giudici, aumenterà il controllo dell’esecutivo sui pm, come avviene in qualsiasi paese che abbia adottato un sistema simile.
La maggiore dipendenza del potere giudiziario da quello politico faciliterà anche la possibilità di colpire la libera stampa. Anche attraverso richieste borderline come quella di Crosetto o del capo di gabinetto di Meloni, Gaetano Caputi. Anche lui ha chiesto ai pm di Roma di individuare le fonti di Domani riguardo alcuni articoli sui suoi affari, scoprendo alla fine che era stato uno 007 dell’Aisi, vicinissimo alla premier, a spiarlo. Una vicenda gravissima su cui nessuno, né a destra né a sinistra, ha chiesto chiarimenti. Invece i giornalisti di Domani rischiano un rinvio a giudizio anche per questo secondo fascicolo.
Nell’amarezza, segnaliamo che – a leggere le prime 270 pagine – la cagnara della destra di fronte alle prime rivelazioni dell’inchiesta di Perugia che ipotizzò «mandanti occulti», «depistaggi» e nuove P2 si sgonfia a una banalissima accusa di fuga di notizie, come ve ne sono tutti i giorni su tutti i media che ancora provano a fare con la schiena dritta un mestiere declinante. Ovviamente, chi scrive – che, ai tempi dell’Espresso, ha cofirmato alcuni degli articoli “incriminati”, come gli scoop sulla casa di Renzi comprata con prestiti di familiari di amici imprenditori precedentemente piazzati in alcuni consigli di amministrazione – promette che Domani continuerà a fare il suo lavoro. Nonostante attacchi, querele o processi, nel solo interesse dei lettori.