Comunità Cristiana di Base di Piossasco
Canone Eucarestia del 29/11/2025
SPERA IN DIO: ANCORA LO PROCLAMERÒ, MIA SALVEZZA E MIO DIO (Salmi 42 e 43)
G. Grazie, o Dio, perché nonostante tutto riusciamo ad incontrarci per lodarTi e per chiederTi di starci vicino ogni giorno.
Voi che credete
voi che sperate
correte su tutte le strade, le piazze
a svelare il grande segreto...
Andate a dire ai quattro venti
che la notte passa
che tutto ha un senso
che le guerre finiscono
che la storia ha uno sbocco
che l'amore alla fine vincerà l'oblio
e la vita sconfiggerà la morte.
Voi che l'avete intuito per grazia
continuate il cammino
spargete la vostra gioia
continuate a dire
che la speranza non ha confini.
(David Maria Turoldo)
Lettura e commento dei Salmi 42 e 43
1 Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Salmo 42
2 Come la cerva assetata
corre verso l'acqua,
così anch'io, o mio Dio.
mi dirigo verso di te.
3 Tutto il mio essere ha sete di Dio:
sì, ha sete del Dio vivente:
quando giungerò a vedere
il volto di Dio?
4 Le lacrime sono il mio pane,
di giorno e di notte,
mentre mi provocano dicendo:
”Dov’èil tuo Dio?”
5 La commozione mi prende il cuore
quando mi metto a ricordare:
andavo alla casa di Dio,
in cima ad un corteo di popolo
in mezzo a canti di festa.
6 Perché gemi, o mio cuore,
perché ti turbi dentro di me?
Spera in Dio: ancora lo proclamerò,
mia salvezza e mio Dio.
7 lo sono a terra, prostrato:
per questo vado ripensando a te
da questa terra del mio esilio.
8 Acque impetuose di violente cascate,
precipitano di abisso in abisso.
Tutti i tuoi flutti e le onde
sono passati sopra di me.
9 Durante il giorno il Signore.
mi conceda il Suo amore:
nella notte innalzerò a lui un canto;
la mia preghiera al Dio vivente.
10 Dirò a Dio: "Mia roccia.
ti sei dimenticato di me?
Perché debbo vivere nell' angoscia
sotto l'incubo del nemico?
11I miei avversari mi insultano:
fino a spezzarmi le ossa.
Essi mi dicono ogni momento:
"Ma dov’è il tuo Dio? “
12 Perché gemi o mio cuore,
perché fremi e ti lasci abbattere?
Spera in Dio: ancora lo proclamerò,
mia salvezza e mio Dio.
Salmo 43
1 O Dio fammi giustizia,
prendi a cuore la mia causa contro gli empi.
Liberami dall'uomo di inganno,
che si regge sulla frode.
2 Tu sei mio Dio e mia difesa:
perché ti tieni lontano da me?
Perché devo andarmene sconsolato,
esposto ai colpi del nemico?
3 Manda la tua verità e la tua luce;
saranno la mia guida.
Mi portino al tuo monte santo,
al luogo della tua presenza.
4 Sì, giungerò fino all'altare di Dio,
a Te, Dio della mia gioia.
Canterò a te sull' arpa,
O Signore, Dio mio.
5 Perché sei triste, o mio cuore,
perché ti lasci abbattere?
Spera in Dio: ancora lo proclamerò,
mia salvezza e mio Dio.
Riflessione di Enrica
Salmo 42, 43 Per la scelta dei salmi da proporre al gruppo mi sono basata sulle riflessioni espresse alla fine del nostro precedente incontro che avevano per oggetto la fede come fiducia. Fiducia in una “presenza” capace di ascolto, di perdono, di sostegno; quest'ultimo però, penso, non più da intendersi, come in passato, nell'accezione di intervento e azione diretti che risolvono le situazioni, bensì come supporto all'uomo in difficoltà da cui egli deriva consolazione e forza per disporre l'animo e l'agire verso la ricerca e la costruzione del bene. Io, come già detto in altri incontri, non riesco più a pensare ad una presenza “personale” (evocabile dalle considerazioni sopra espresse) tuttavia non voglio rinunciare all'idea della possibilità di un “ulteriore”, di una “presenza di bene e volta al bene”, che chiamo Dio. Continuo in qualche modo a desiderare Dio, continuo a sperare nella sua presenza, continuo a cercare Dio. Per questo ho deciso di proporre alla riflessione il salmo 42 che, come ci ha detto Carla,” è il primo dei salmi del secondo libro, il mattino, nel quale, rispetto al libro precedente, viene introdotta una nota nuova, di maggiore fiducia, insieme all'ardente desiderio di vedere Dio”. In particolare il salmo 42, in diversi commentari, è presentato come espressione viva dell'anelito umano verso Dio, del desiderio di Dio, in altri termini della “sete di Dio”. Leggiamolo ora nella versione, riportata da Maria Grazia nel canone, secondo la traduzione di Franco Barbero. Sebbene tale versione in alcuni versetti si discosti da quella contenuta nel testo “Il libro dei Salmi” di Gianfranco Ravasi, io l'ho molto apprezzata in quanto, a mio parere, essa presenta un linguaggio più semplice, meno aulico, ma maggiormente comprensibile e più consono alla nostra sensibilità. L'anelito, il desiderio, la “sete” di Dio mi paiono particolarmente espressi nei versetti 2,3 e 9 ed anche nel ritornello su cui però ci soffermeremo in seguito. Circa il versetto 2 vorrei proporvi la versione scritta da Ravasi in quanto essa mi pare molto suggestiva: “ Come la cerva sospira ai corsi d'acqua, così l'anima mia sospira a te o Dio”. A commento di tale versetto (forse in maniera non del tutto autorizzata, ma molto evocativa) Ravasi scrive: “...qui ci si trova all'improvviso immersi in una plaga desertica e montuosa, in un silenzio assolato, lacerato dall'urlo della cerva assetata, che non si lamenta tanto per la sete, quanto piuttosto per il wadi secco, ansiosamente cercato, e scoperto, alla fine della corsa, senza acqua.” Queste parole mi fanno pensare che, oltre al persistere della sete, affiori nella cerva la delusione per la vanità dello sforzo compiuto; ciò può valere anche per l'uomo che non desiste dalla ricerca di Dio? Ne abbiamo fatto o ne facciamo esperienza? Senza dubbio tutti noi, che riflettiamo insieme, condividiamo o abbiamo condiviso la “sete di Dio” espressa dall'orante del salmo 42, tuttavia egli (come possiamo comprendere dal testo stesso) vive in una situazione assai diversa dalla nostra, e la sua “sete di Dio” presenta alcune connotazioni differenti dalle nostre. Per comprendere queste differenze dobbiamo chiederci “Chi è l’orante?” “Chi sono i suoi nemici” “Quando è stato composto il salmo?” Circa l'ultima questione, dice Ravasi, non è possibile fornire una risposta tendenzialmente certa: il salmo potrebbe essere stato composto nel periodo prebabilonese come in quello postbabilonese anche se, da vari indizi, che non so ripetere, egli tende a preferire la seconda ipotesi. Più certa, invece, pare essere l'identità dell'orante. Egli, dice Ravasi, come si può dedurre anche da alcuni elementi espliciti del testo, è un levita o addirittura un sacerdote del tempio, vittima di ostracismo da parte di un individuo o di un gruppo di potere e quindi costretto all'esilio, cioè costretto a risiedere lontano da Gerusalemme e dal tempio, “centro del suo amore e della sua vita”. Il luogo dell'esilio è per Ravasi l'alta Galilea così come è deducibile dal testo che al versetto 7, nella traduzione di Ravasi, fornisce precisi riferimenti geografici riconducibili proprio all'alta Galilea. Qui l'orante vive un “presente tragico” intessuto di angoscia (versetti 7 e 8) in cui si sente dimenticato da Dio ed abbandonato in balia di nemici che lo deridono e lo disprezzano rinfacciandogli in ogni momento “ Ma dove è il tuo Dio?” (versetti 4, 10 e 11). L'angoscia del presente è alimentata anche dalla nostalgia del passato (versetto 5), in quanto nostalgia di Dio e del tempio, centro, per l'orante, del suo amore e della sua vita. Tuttavia l'orante, nel suo presente tragico, non rinuncia a cercare Dio e, come dicevamo all’inizio, a coltivare dentro di sé la “sete di Dio” (versetti 2, 3, 6, 9 e 12). In particolare nel ritornello l'orante, che dialoga con sé stesso, non si rassegna all'essere abbandonato da Dio e vivere nell’affanno della nuova ricerca; nella seconda parte del ritornello infatti la “sete di Dio” si punteggia di speranza, o meglio, di incitamento alla speranza, di sollecitazione al movimento contro ogni rassegnazione. L'incitamento alla speranza, appena sfiorata, accennata nel Salmo 42, diventa speranza vera, quasi certezza, sicuramente fiducia nel Salmo 43 che, come dice Ravasi, va letto in continuità del salmo 42 di cui costituisce l'epilogo. Ora l’’orante è certo (3,4) che Dio tornerà ad essergli vicino e lo sosterrà nel ricomporre quella armonia dolorosamente perduta per la quale nel presente prova una struggente nostalgia. L'itinerario dell'orante (smarrimento, sete di Dio, speranza, fiducia, certezza?) è anche esperienza nostra ed è proponibile anche per noi? Ed ancora: ma che cosa è la nostra sete di Dio? Da che cosa essa è alimentata? Ed infine: possiamo davvero sperare in Dio
Riflessioni comunitarie
G: Prima della condivisione del pane e del vino, leggiamo come preghiera eucaristica il Salmo 133 riscritto dai genitori di figl* lgbtq+ del gruppo di Roma ”Parole e parole “, animato da Dea.
Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli e le sorelle vivano insieme!
È come lo sguardo di chi ti ama,
ti conosce e ti accetta così come sei.
È come un canto celestiale
che fa vibrare i nostri cuori
ad altezze diverse seppur in perfetta armonia.
È come tenere un bimbo in braccio
quando si addormenta fiducioso e sereno.
È come il sole che tramonta sul mare
regalando colori ed emozioni.
È come una pausa soave e lieve
incontrarsi per parlare delle nostre storie,
di noi stessi, dei nostri figli e figlie.
Ascoltare ed essere ascoltati,
accogliere ed essere accolti,
senza giudizio come farebbe e fa il nostro Dio.
È come un banchetto di nozze
vissuto nella comunione dei santi
tra chi vive e chi ci ha lasciato.
È come la risata di mia figlia
che finalmente sta bene.
È come un abbraccio che ci circonda
anche quando non stiamo insieme,
uno sguardo che ci segue
anche quando non lo vediamo.
È come aver trovato il rispetto di sé,
la tua famiglia, il paradiso in Terra.
È come incontrare per strada
il sorriso di una persona sconosciuta.
È come l’abbraccio di un’amica
quando hai un peso sul cuore
e non servono parole per sentirti capita.
È come i fili cuciti e ricuciti di un ordito intrecciato
per superare anche gli strappi più dolorosi.
È come quando abbiamo riempito le piazze e le strade di Roma per dire: ci siamo! ai fratelli e alle sorelle di Gaza, accompagnando con i versi di una canzone quelli che avevano preso il mare per raggiungerli:
“Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli:
che la pietà non vi rimanga in tasca”.
(Fabrizio De Andrè)
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.
T. Gesù era a tavola con i suoi amici e le sue amiche. Egli era ben consapevole della congiura che si stava organizzando contro di lui e il suo cuore faceva i conti con la paura. Voleva lasciare ai suoi amici e alle sue amiche, in quella sera e in quella cena di intimità, qualcosa di più di un ricordo, di un segno. Sulla mensa c’erano pane e vino. Gesù alzò gli occhi al cielo, come spesso faceva nei giorni della sua vita e, dopo aver benedetto il nome santo di Dio, prese il pane, lo spezzò, lo divise dicendo: “Prendete e mangiate. Questo pane condiviso sia per voi il segno della mia vita. Quando farete questo, lo farete in memoria di me, di ciò che ho fatto e detto”. Poi prese la coppa del vino e disse: “Questo calice sia per voi il segno di un’amicizia che Dio continuamente rinnova con tutta l’umanità, con tutto il creato”.
Condivisione del pane e del vino.
Padre Nostro
Preghiere della Comunità
Benedizione finale
È PER PAURA
“E' per paura di essere criticati ed emarginati
che rinunciamo ad essere profeti.
È per paura di perdere consenso
che mettiamo da parte la coscienza critica.
È per paura di affrontare gli oppressori
che permettiamo ai potenti di chiudere la bocca agli esclusi.
È per paura di essere perseguiti
che non denunciamo le ingiustizie e i corrotti.
È per paura di creare polemica
che lasciamo un fratello sotto attacchi ingiusti.
È per paura di perdere le nostre sicurezze e privilegi di oggi che non rischiamo il nuovo che viene dalla lotta e dall'impegno, per un mondo differente e giusto.
Libanio Christo, domenicano