giovedì 27 novembre 2014

CHI HA LA DIGNITÀ GIUSTA PER MISURARE LA DIGNITÀ

C’è una parola che mi colpisce particolarmente, tra quelle pronunciate dal presidente della Pontificia Accademia per la vita, Monsignor Carrasco De Paula, sul suicidio assistito della giovane americana Brittany Maynard: dignità. Testualmente, nella dichiarazione che ha rilasciato il responsabile vaticano per la bioetica, “la dignità è un’altra cosa che mettere fine alla propria vita”. Ecco, è un’altra cosa: ma cosa? E chi la stabilisce, confessionale o laico che sia? La risposta di Carrasco in questi termini era per ciò che aveva detto più volte e in un video toccante che aveva commosso gli Stati Uniti la stessa Brittany, ossia che avrebbe posto fine alla sua vita di malata terminale con un cancro al cervello “dignitosamente”, celebrando la vita e non la morte anche se intendeva togliersela prima che il male la rendesse postuma di se stessa, e un peso per i suoi cari.
È evidente e ovvio che il Vaticano condanni qualsiasi forma di eutanasia, e in questo senso non meraviglia, né questa né altre volte così uguali e così diverse nell’unicità di ogni esistenza, tutto quello che viene dalla Chiesa cattolica. Lo stesso Papa Francesco, di cui si discute se sia più a sinistra e più marxista dell’attuale temperie politica non solo italiana (per quello ci vuole poco…), sul suicidio si è espresso quasi esclusivamente come metafora.    Alla lettera, che mi risulti lo ha fatto solo nell’agosto 2013 ricevendo a porte chiuse una delegazione di 500 giovani della diocesi di Piacenza: invitando i giovani a “non essere tristi né pigri” e dicendo che giovani depressi così “li mando dallo psichiatra”, si è affacciato sul ciglio dell’abisso, solo sfiorando il discorso sul suicidio.

Pensare che in Europa è la seconda causa di morte per gli adolescenti, e la prima per i giovani tra i 25 e i 34 anni. In Italia fortunatamente siamo (ancora?) lontani dai numeri giapponesi degli “Hikikomori”, letteralmente “chi si isola” dalla società e decide di privarsi di tutto, anche della vita, prima che gliela tolgano gli altri.
Ma ogni discorso – fatto logicamente di parole – sul fine vita rimanda credo alla frase di Wittgenstein, “su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”, significativa espressione del filosofo che ci sta dicendo una semplice e profondissima verità: le parole non possono contenere la realtà, e non esistendo un metalinguaggio all’uopo meglio il silenzio. Riguarda anche queste righe, e parrebbe un altro paradosso.

Per questo piuttosto che del suicidio parlo della “dignità”. Chi la usa più appropriatamente la parola, Brittany che non vuole vivere senza dignità a suo modo di vedere le cose, o Monsignor Carrasco che le nega post-mortem anche questo libero arbitrio nella decisione e nel linguaggio che la accompagna?
Sono, siamo tutti d’accordo immagino nel ritenere che dietro ogni scelta estrema di questo tipo, finale di esistenze le più distanti tra loro con vigilie assai differenti e scarti d’umore inesplorabili, ci sia un mistero, il mistero dell’umano. Invece, tutt’altro genere di discorso riguarda il caso di Eluana Englaro e della decisione di padre e medici divenuto 5 anni fa un rodeo per la politica e per i media.
In quel periodo, mentre un duo oggi in ombra come Cicchitto e (Monsignor) Fisichella metteva mano alla legge sul testamento biologico, moriva con una dignità straordinaria la mia gatta similsiamese o fintobirmana, Mimmi, nel senso che ci aveva chiesto nella sofferenza di non farla sopravvivere senza dignità. Ne ho scritto qui. Si intitolava “La lezione di una gatta”.
Per quello che ho imparato da lei, mi domando e domando a Monsignor Carrasco che cosa si intenda per dignità e come si debba considerare il concetto non soltanto riferito al modo di morire ma anche a quello di vivere. Quotidianamente, però. Ne vedo così poca…

(Il Fatto Quotidiano, Oliviero Beha, 5 novembre)