sabato 31 gennaio 2015

UN DESIDERIO DI ASSOLUTO CHE DIVENTA OSSESSIONE

Cosa può rendere una donna malvagia e crudele? Può esistere una risposta sufficientemente sensata a questa domanda? L'ideologia patriarcale che oggi sta esalando i suoi ultimi e, talvolta, disperati respiri, voleva ridurre l'essere della donna a quello della madre. Era solo la figura della madre a sancire una versione benefica, positiva, salutare, generativa della femminilità. La donna, invece, separata dalla funzione materna, si prestava ad incarnare i fantasmi più maligni: cattiveria, peccaminosità, lussuria, inaffidabilità, stregoneria, crudeltà. Mentre la donna realizzata nella madre riusciva a emendare gli aspetti inquietanti della femminilità, la donna che rifiutava di appiattirsi sulla sola maternità e di rinunciare alla propria libertà portava con sé lo stigma di una anarchia pericolosa e antisociale che doveva essere redenta con gli strumenti della morale pedagogica o della psichiatria. Insomma nella prospettiva dell'ideologia patriarcale alla nostra domanda (cosa rende una donna malvagia e crudele?) seguiva una risposta sicura: il suo non accesso alla maternità come forma di realizzazione benefica della femminilità.
Questa versione schizoide e manichea della femminilità (madre uguale bene, donna uguale male) è stata giustamente criticata e superata.
Come possiamo oggi, sulle ceneri dell'ideologia patriarcale, rispondere alla nostra domanda? La premessa è doverosa: nel mondo psichico le generalizzazioni non sono mai appropriate. Eppure, per provare a rispondere, non possiamo non partire dalla considerazione che il mondo psichico di una donna è decisamente più esposto a una dimensione labirintica che non sembra affatto riguardare l'uomo. Basta solo considerare come ancora oggi siano sempre le donne (furono le prime isteriche a portare Freud verso la psicoanalisi) ad affollare in stragrande maggioranza gli studi degli psicoanalisti, segno, a mio giudizio, non tanto della presenza in esse di maggiori turbe psicogene, ma della esistenza di una vita psichica assai più stratificata e complessa di quella maschile. Per un uomo la ricerca della propria identità passa solitamente attraverso la condivisione di tratti identificatori comuni che lo rendono membro di quel gruppo, di quella famiglia, identificato, senza grandi scarti, al proprio status sociale o ruolo professionale. Diversamente una donna esige di essere riconosciuta nella sua particolarità più propria al di là dei gruppi, delle famiglie o dei ruoli che la identificano socialmente e professionalmente. È un grande tema della psicoanalisi, ma anche della filosofia politica se si pensa, per fare un solo esempio, alle considerazioni sviluppate da Hanna Arendt intorno all'opposizione tra l'universale (maschile) e la molteplicità singolare (femminile).
L'importanza assoluta che assume nel mondo psichico femminile l'esperienza del sentirsi riconosciute nella propria irripetibile singolarità, una per una, le porta a vivere tutte le passioni con una dedizione e una cura assolute, ma, al tempo stesso, con una sorta di dismisura, di intemperanza e di eccesso sregolato rispetto alla moderazione aristotelica che può caratterizzare invece (nel bene e nel male) la normalità fallica. Nell'amore, in particolare, essa può prendere le forme dell'esigenza di un possesso assoluto dell'oggetto, di una impossibilità a tollerarne l'assenza, la mancanza, la distanza. Come accade alla protagonista inquietante del celebre film L'impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima, la quale evira il proprio partner per impossessarsi realmente del suo organo, per averlo tutto per sé. Ma come può accadere anche - seppure in una direzione totalmente opposta - in alcune grandi mistiche che riescono a trasformare proprio questa assenza dell'amato (Dio) in un modo assoluto e vitalissimo della presenza. Se l'amore è per molte donne la via privilegiata per trovare una propria identità non si deve trascurare il fatto che la perdita dell'amore può trascinare con sé, in modo catastrofico, quella stessa identità. Spesso allora la crudeltà di certe donne può essere un'alternativa rabbiosa alla depressione che scaturisce proprio da questa perdita di identità vissuta come irreversibile e impossibile da elaborare psichicamente.
Massimo Recalcati

(Repubblica 15 gennaio)