venerdì 27 marzo 2015

Il martirio silenzioso della cristianità

Al consueto, affollato appuntamento dell'Angelus, qualche domenica fa, papa Francesco ha pregato per i cristiani uccisi dall'attentato talebano di Lahore in Pakistan e ha detto che il mondo cerca di nascondere la persecuzione religiosa in atto. Ora, non c'è dubbio che i cristiani sono spesso vittime di attentati. Ma è vero che si cerca di nasconderlo? Non risultano prove di una congiura mondiale, ma forse l'attenzione non è adeguata all'importanza di un fenomeno come il ritorno del martirio dei cristiani sulla scena del mondo: un mondo assai più grande e terribile di quello dell'antico Impero romano.
Restiamo ai fatti e cerchiamo di capire le percezioni che se ne hanno. In apparenza, nessun dubbio sui dati: lo mostrano le cifre del rapporto del Pew Research Center sulla discriminazione religiosa nel mondo. Oggi i cristiani sono il gruppo religioso che soffre maggiori forme di ostilità sociale e di discriminazione. Si parla di 118 paesi del mondo. Gli altri, musulmani inclusi, li seguono a distanza. Eppure ben maggiore attenzione si registra sulla stampa internazionale per le distruzioni da parte dei jihadisti dell'Is dei siti archeologici e delle antiche testimonianze di comunità cristiane o precristiane in Medio Oriente e in Africa.
Ma se è vero che i cristiani sono i più perseguitati al mondo, bisognerà fare i conti col fenomeno di una inavvertita "cristianofobia": e questo mentre ancora siamo alle prese con l'"islamofobia". Così sostiene ad esempio il giornalista cattolico americano John Allen. E tuttavia si dovrà almeno citare una versione scettica della lettura di questa contabilità. È giusto contare a parte i cristiani estrapolandone le cifre dal complesso delle moltissime vittime dei conflitti civili nel mondo? O non sarà perché il cristianesimo è la religione più diffusa che il loro numero è il più alto?
Quanto al tentativo del "mondo" di nascondere la realtà della persecuzione, va detto che la logica dei grandi numeri stempera e annebbia quella percezione delle sofferenze che solo il caso singolo è capace di dare — il volto del martire, la venerata immagine antica del suo corpo piagato. Ed è anche innegabile la diffusa assuefazione alle storie di violenza e di brutalità, ai grandi e grandissimi numeri dei massacri. La sensibilità è smussata, lo sdegno naufraga nell'indistinto grigiore di un orizzonte di ingiustizie e sofferenze. È un effetto della mondializzazione: «Ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema», diceva Leopardi.
La sfera terrestre brulicante di miliardi di esseri umani resta una immagine mentale fredda, remota: formicai fatti per essere schiacciati dal feroce passo della storia. Il mondo si allarga e nello stesso tempo diventa più piccolo: nella sensibilità del nostro orizzonte quotidiano fa più rumore l'immigrato che ruba la bicicletta del vicino, della strage remota di intere comunità.
E poi, la parola stessa "martirio" ha cambiato significato. Un tempo i martiri erano per definizione quelli cristiani. La fantasia pietosa dei fedeli si è concentrata per secoli sulle immagini delle loro sofferenze. Nel trattato cinquecentesco di Antonio Gallonio le incisioni del Tempesta raffiguranti «gli instrumenti di martirio e le varie maniere di martoriare usate da' gentili contro i cristiani» segnarono un'autentica vetta nella visualizzazione dell'arte di far soffrire. Ne sopravvive un pallido, rozzo simulacro negli squallidi "musei della tortura".
Martirio, martoriare: una intera famiglia linguistica pronta a trasferirsi in altro campo. Significava in antico la "testimonianza" di chi si rifiutava di adorare la statua dell'imperatore romano e affrontava le belve al Colosseo. Oggi del Colosseo si vorrebbe fare un campo di calcio: e martire si definisce il seguace di sette terroristiche che in nome del suo Paradiso si fa saltare in aria per uccidere quanti più cristiani o sciiti gli è possibile.
E intanto è finita l'era delle potenze cristiane europee pronte a ricorrere alle armi in nome della Chiesa. Restano sussulti di antiche abitudini nelle reazioni politiche della Francia, per lunghi secoli responsabile della tutela dei Luoghi Santi. Le succedette l'Inghilterra che mise così le mani sull'area mediorientale. Come finì nel 1947 lo sappiamo e ne paghiamo ancora le conseguenze.
Oggi niente è più come prima. Mutato il mondo e mutata la Chiesa: che deve affidarsi non ai cannoni delle guerre cristiane ma alla recuperata forza morale della testimonianza disarmata, di quell'esempio di paziente sopportazione senza odio che tanti cristiani riescono a dare nei contesti più difficili. Anche nel mondo islamico si riflette seriamente sul rapporto tra religione e violenza: ne abbiamo avuto un esempio in un convegno organizzato nel maggio dell'anno scorso ad Amman per iniziativa del principe Hassan. Un punto vi fu chiaro: Islam, jihad, sono parole che oggi nella comunicazione pubblica hanno assunto un significato del tutto diverso rispetto a quello tuttora prevalente nell'antica religione di Maometto. E per noi europei si tratta intanto di prendere atto del significato nuovo che ha assunto nel frattempo l'evocazione del martirio cristiano; un tema così tante volte richiamato e in così numerose e diverse circostanze da contribuire a quella distrazione oggi lamentata.
Papa Wojtyla, testimone dei tempi duri del '900, parlò spesso del ritorno dei martiri. Li definì «militi ignoti della grande causa di Dio». Pensava alle persecuzioni nazista e stalinista, ma anche al soggettivismo, all'indifferenza religiosa delle società ricche. L'ammonimento di papa Francesco ha stile e obbiettivi diversi. Guarda con l'occhio di un Tertulliano al sangue vero, quello versato dai martiri più umili, come seme dei futuri cristiani di una Chiesa "servente e povera". Torna in memoria l'episodio celebre di Francesco d'Assisi che predica la fede al sultano d'Egitto. E, per quel tanto di profetico che affiora spesso nei messaggi dell'attuale pontefice, c'è da chiedersi se non voglia egli stesso tentare una missione simile, una predicazione disarmata in mezzo a chi odia i cristiani. La breve durata del suo pontificato misteriosamente preannunciata (cinque anni) potrebbe significare una intenzione di concluderlo con una testimonianza-martirio. C'è da chiedersi quale potrebbe essere oggi il volto moderno del tollerante e ospitale sultano d'Egitto che rimandò Francesco vivo e protetto alle tende cristiane.
Adriano Prosperi

(Repubblica, 23 marzo 2015)