domenica 30 agosto 2015

"UNA FOLLA SFRENATA DI PERSONE SOLE. TONDELLI LO CAPÌ TRENT'ANNI FA"

Trent'anni dopo, sulla riviera romagnola si muore ancora. Si muore per droga, incidenti, coltelli. Con quella stessa malinconia, tra le luci di un lungomare che non finisce mai. Ma esistevano solo il buio, il profondo, lo sconosciuto, dentro quell'identica aria densa di salsedine e dolore. L'inganno, l'apparenza e il sentimento dell'addio tornano con le parole di Pier Vittorio Tondelli, con Rimini che Bompiani ripubblica dopo tre decenni esatti, 24 anni dopo la giovane morte dello scrittore, in questi giorni di feste, risse e sangue in spiaggia.

Forse, con l'aiuto del tempo e della distanza si potrà comprendere meglio un piccolo classico postmoderno della solitudine e dello straniamento, liquidato allora da certa critica come un romanzetto all'americana, costruito per vendere (e infatti vendette moltissimo, 100 mila copie solo nella prima ondata in libreria). Nei giorni delle vite spericolate sbattute contro un muro, Rimini continua a raccontare un abbaglio e un'illusione.

Fulvio Panzeri è lo studioso che più di ogni altro è entrato nel mondo di Tondelli, colui che ha raccolto il materiale di Un weekend postmoderno (1990) e ha curato la nuova edizione di Rimini.

Perché leggerlo, o rileggerlo?

«Perché ci spiega cos'era quell'Italia che si credeva l'America, e che cos'è diventata. Perché Rimini ha un nocciolo profetico, non a caso si chiude con una specie di apocalisse».

Per Tondelli, che cos'era quella città?

«Una metafora dell'inganno. Niente di felliniano: una folla sfrenata dove scoprirsi totalmente soli. Il romanzo mostra quello che si muove dietro le luci e dentro di noi, il disagio, il vuoto».
È ancora valida quell'idea di provincia, la falsa serpentina luminosa?

«Sì, perché smaschera una finzione. E poi la superficialità italiana non è mica cambiata. Rispetto ad allora è solo venuto a mancare il mito del guadagno facile, dello yuppismo. Il sogno si è perso, mentre la disperazione si è estesa».

Adesso come la descriverebbe Tondelli?

«Osserverebbe tutto, vorrebbe prima guardare, ascoltare. Come fece per Rimini , libro preceduto da una serie di articoli sulla riviera romagnola, su quei luoghi simbolici. Lui non era un festaiolo, proprio per nulla, ma era curioso di tutto».

Scelse di utilizzare generi narrativi diversi, dal giallo al rosa, dal romanzo psicologico all'apocalittico: per questo non venne del tutto capito?

«Pier Vittorio fece una scommessa, lui che riteneva Il lungo addio di Chandler l'opera più importante del Novecento. Ma quella struttura insolita e popolare, inedita da noi, non fu accettata dai critici che normalmente detestano i bestseller. Tenete conto che, allora, il noir era giudicato materiale da edicola o poco più. Credo che Rimini , con le debite proporzioni, abbia compiuto un'operazione di sdoganamento simile a quella di Eco con Il nome della rosa . E la malinconia che impregna quasi tutte le sue pagine, dopo tanto tempo le riscatta».

Lei ha parlato di libro profetico: perché?

«Perché dentro le vite spericolate già covava la morte».

È come se due forze opposte, riempimento e svuotamento, agissero con potenza e senza soluzioni.

«Tra finta allegria e smarrimenti c'è un dialogo continuo, sotteso e silenzioso. C'è il piano narrativo di un Paese che ha perso direzione e senso, che vaga nel deterioramento, e quello di personaggi che procedono tra allegria e vuoto».

Il romanzo dilata moltissimo il tempo e offre il senso di una distanza: compaiono macchine per scrivere e telefoni fissi, mangiacassette e flipper, zone per non fumatori sugli aerei e rullini fotografici. Siamo davvero così lontani da quell'epoca?

«Fino a un certo punto, anche se oggi trent'anni ne valgono trecento. Salvo scoprire, poi, quello che invece rimane indelebile: il dolore delle persone sole. Ma la forza di Rimini è anche nei colori, nei linguaggio popolare, quel saper essere fumetto e videogioco. Tondelli paragona la riviera romagnola a Hollywood e Nashville, ci sono i colori pastello delle cabine sulla spiaggia, i sorbetti fluorescenti, Fiabilandia e l'Italia in Miniatura, però dentro i luna park troviamo una disperazione senza fine».

Bellariva, Marebello, Miramare, Rivazzurra: l'inganno comincia dai nomi?

«Spesso è così. Dai nomi e dalle parole».

Sesso ginnico e compulsivo, tradimenti continui, non solo fisici. Quale tipo di amore c'è in Rimini?

«Un'illusione di sensazioni estreme, di viaggi senza ritorno nell'euforia e nell'inganno. Ma anche legami profondi, strazianti. Bisogna scendere sotto la superficie e puntare gli occhi nel disastro. È un po' tutto il meccanismo del romanzo a procedere così: l'industria del divertimento si rivela, alla fine, una scatola vuota. I personaggi perdono molto o tutto, dicendo continuamente addio».

(Maurizio Crosetti, Repubblica 24 agosto)