sabato 26 novembre 2016

UN IMPORANTE PROMEMORIA

Corso Biblico. Torino, 18.11.2016.
Deuteronomio

(Appunti presi durante la conferenza di Franco Barbero).
Il Deuteronomio inizia con un lungo discorso messo in bocca a Mosè (1,1 – 4,40) che contiene una retrospettiva della storia di Israele dalla partenza dal Monte Horeb (il Sinai) al lungo peregrinare attraverso il deserto verso la terra promessa, non ancora giunto a conclusione.
Il testo è frutto di un lavoro di redazione di varie narrazioni precedenti che riunisce la rilettura del passato con la situazione presente (il momento dell'attesa della realizzazione della promessa) e con l'obiettivo futuro, il possesso della terra, che però è ancora solo una speranza. I temi riprendono e rielaborano quelli contenuti nelle analoghe narrazioni del libro dell'Esodo e dei Numeri con varianti interpretative. In comune tutti i racconti hanno la prevalenza della figura di Mosè, la grande guida del popolo, mentre differenti sono le interpretazioni dei motivi per cui Dio non ha concesso a Mosè di entrare nella terra promessa, tema inquietante e oggetto di innumerevoli riflessioni da parte delle scuole rabbiniche. Si insiste sulla provvidenza divina e sull'elezione di Israele. L'esilio è un castigo per l'infedeltà, ma si apre la prospettiva della conversione e del ritorno. Il Signore punisce il popolo, ma al tempo stesso lo assiste: il rapporto tra Dio e il popolo è ambivalente.
Il primo capitolo inizia con il termine “devarim”, le parole del discorso di Mosè che scandiscono i tempi e i luoghi del cammino del popolo nel deserto con una serie di nomi di luoghi geografici, di nomi di popoli e di personaggi, di indicazione di tempi: il significato sotteso a queste indicazioni minuziose, che a noi possono apparire noiose e sovrabbondanti, è che il destino del popolo si gioca qua sulla terra, e non in sfere celestiali (Miller).
I temi dell'inizio del discorso di Mosè, che ritornano lungo tutta la narrazione sono il viaggio e la promessa. Dio invita il popolo a muoversi: “Avete dimorato abbastanza su questa montagna, voltatevi, levate l'accampamento e dirigetevi verso le montagne degli Amorrei...”(1, 6-7): la vita è un viaggio, dice un midrash, per essere vivo devi voltare le spalle al passato, andare oltre, sempre. E l'oltre è spesso portato dall'altro da noi (il migrante, il diverso...) che ci pone di fronte al nostro lato oscuro e ci fa da specchio, oppure è ciò che non capisco, o che non riesco a fare...
La promessa riguarda la terra: “Ecco io ho posto avanti a voi la terra. Entrate e prendete possesso della terra...” (1,8) ed è ripetuta per ben 18 volte. Dio mantiene le sue promesse e la terra è un suo dono, ma bisogna meritarsela e collaborare con il suo progetto.
I versetti da 9 a 18 ricordano come il popolo si costituisca e si organizzi in istituzioni. L'espressione “Il Signore, vostro Dio, vi ha moltiplicati ed eccovi numerosi come le stelle del cielo” (1,10) è una evidente esagerazione che legge nel presente la speranza di quello che potrà essere il futuro. Le dimensioni del popolo dovevano essere molto ridotte e la ricerca storica del tempo indica che la storia di Israele non è unica: vi sono molte altre storie di piccoli popoli, al massimo qualche migliaio di persone, che si ribellano alla oppressione di re e fuggono in cerca di nuovi spazi vitali o di accordi con altri poteri meno oppressivi. Israele è una delle tante storie esodiche dell'antichità, una storia di schiavi fuggitivi, denominati habiru, da cui forse deriva il nome “ebrei”, che però sono gli unici a maturare una fede in un Dio unico liberatore. Il piccolo popolo si organizza scegliendo i propri capi tra “uomini saggi, intelligenti e stimati” (1,13) che amministrino la giustizia (le liti dovevano essere frequenti!). Il tema della giustizia è di importanza fondamentale nella Bibbia come fondamento del vivere civile. L'accenno allo straniero (1,16) a cui si applicano le regole di giustizia non è compatibile con lo stato nomade del popolo e deriva da una tradizione riferentesi a tempi successivi, quando il popolo era divenuto sedentario.
Il blocco di versetti da 19 a 46 è definito dal Von Rad la storia delle nostre paure di fronte alla libertà. Giunti in vista della terra promessa gli israeliti hanno paura, mandano degli esploratori che riferiscano com'è la terra in cui insediarsi (episodio narrato anche in Numeri, 13) e si rifiutano di entrare di fronte alle notizie circa la potenza degli Amorrei che già abitano quella terra e la presenza dei “figli degli Anakiti” (1,28): gli Anakiti erano simbolo di un potere invincibile. Questa ritrosia viene qui interpretata come una mancanza di fiducia in Dio che combatte insieme e per il popolo (1,30). Ma questa immagine per noi ostica di un Dio violento viene immediatamente contrapposta a quella di “un uomo che porta il proprio figlio”, l'immagine più tenera di un Dio che protegge le proprie creature. L'immagine della nube (1,33) richiama Esodo 13, 21 e seguenti. L'infedeltà di Israele viene punita con la costrizione a tornare indietro e rimanere nel deserto: “tornate indietro e incamminatevi verso il deserto, in direzione del Mar Rosso” (1,40). I commenti rabbinici evidenziano che molti preferiscono evitare la responsabilità che la libertà comporta e scelgono di rimanere in stato di schiavitù.
Dai versetti 41 – 46 traspare la difficoltà di un popolo piccolo e debole di trovare spazi di sopravvivenza nella nuova terra. E' storicamente probabile che l'insediamento degli Ebrei in Palestina più di una conquista si sia trattato di una occupazione di spazi lasciati liberi e di una convivenza più o meno pacifica con i Cananei. Qui il testo evidenzia che il cammino verso la liberazione è bloccato per la presunzione degli Israeliti di fare senza Dio.
Il capitolo 2 è una storia di peregrinazioni e di ammonimenti di Dio che continua, nonostante tutto, a condurre il tormentato cammino del popolo: vedendolo pentito, lo sprona a muoversi: “Avete girato abbastanza intorno a questa montagna; volgetevi verso settentrione” (2,3), poi lo ammonisce a non far guerra ai popoli che hanno ricevuto in dono la terra (i discendenti di Esaù, 2,4 e sgg., i Moabiti, 2,9, gli Ammoniti, 2, 18 e sgg.): chi ha già avuto la benedizione e risiede in pace nella terra avuta in possesso deve essere rispettato. Il termine “Zamzummin” significa “mosche”, “cose da nulla”, mentre gli Anakiti simboleggiano genti forti e temibili. I versetti 24 e 25 hanno un'enfasi epica a ricordo probabilmente di conflitti realmente verificatisi tra i popoli citati, la cui presenza nella terra di Canaan trova riscontro nei dati archeologici. Il racconto prosegue (vv. 26 – 37) con la descrizione della conquista cruenta delle terre di Sicon, re di Chesbron che, avendogli “il Signore ...reso inflessibile lo spirito e ostinato il cuore” (2,30 che riecheggia l'indurimento di cuore del Faraone nell'Esodo) nega il passaggio richiesto pacificamente dagli Israeliti, muove guerra contro di essi e viene sconfitto fino allo sterminio totale di “ogni città, uomini, donne e bambini” (2, 34). E' uno dei tanti passi “illeggibili” della Bibbia. Ma è sbagliato ignorare questi passi, come se non esistessero; piuttosto bisogna utilizzare il metodo storico-critico che legge questi testi non come “parola di Dio” tout court, ma come manifestazione di fede espressa attraverso le categorie culturali del tempo, dove la Parola va ricercata con un lavoro di analisi esegetica.
Nel capitolo 3 prosegue l'epica della guerra di conquista dei territori con lo sterminio dei precedenti abitanti, fino al v. 21, dal quale inizia il tema del passaggio della guida da Mosè a Giosuè. La generazione dell'Horeb non ha avuto fiducia nella promessa della terra e perciò non ha potuto entrare nel paese. La stessa punizione colpisce Mosè, il quale chiede al Signore di poter vedere la bella terra promessa che sta al di là del Giordano, ma Dio si adira con lui: “Basta, non aggiungere più una parola su questo argomento. Sali sulla cima del Pisga, volgi lo sguardo a occidente, a settentrione, a mezzogiorno e a oriente e contempla con gli occhi; perché tu non attraverserai questo Giordano” e gli ordina di passare le consegne a Giosuè. Su questo passo sono fioriti i commenti nella Mishnà e nel Talmud. L'attesa del regno è fondamentale per l'uomo, ma essa attraversa tutta la vita: come già accennato a commento del capitolo 1, la vita è un cammino e non bisogna spegnere l'attesa, pensando di aver già realizzato abbastanza, ma guardare oltre. Si vorrebbero vedere i risultati dei propri sforzi, ma i nostri giorni sono contati e non sempre ciò è possibile. Mosè deve aver provato una profonda delusione e Dio sembra quasi si faccia gioco di lui. E' una pedagogia difficile da sopportare, mantenere la gioia anche senza il successo. Un midrash dice di godere la giornata di oggi come se fosse tutta la vita. Non sono chiari i motivi per cui Dio ha impedito a Mosè di entrare nella terra promessa; varie sono le interpretazioni; una di queste è contenuta nel versetto 37 del primo capitolo, dove Dio, adirato con Mosè perché troppo indulgente nei confronti del popolo di dura cervice dice: “Neanche tu vi entrerai” (nella terra promessa).
Il capitolo 4 sviluppa il tema centrale della teologia deuteronomista: Dio, creatore del mondo, per amore dei Padri (v. 37) ha scelto Israele e gli ha rivelato i suoi insegnamenti. L'elezione ed il patto di alleanza, però, comportano delle responsabilità. Il possesso della terra impone l'obbligo dell'osservanza delle leggi insegnate da Dio (4, 1 - 8). Quando si diventa possessori della terra sorge il pericolo di abusi: il senso della proprietà porta all'esclusione e alla costruzione di muri, si pensa di poter fare quello che si vuole. Si dimentica che, come dice Franzoni, che “la terra è di Dio”. Anche l'enciclica di papa Francesco "Laudato sì” contiene belle parole sull'argomento. E la vicenda odierna di Israele è emblematica in proposito.
La tentazione più insidiosa è l'idolatria (4, 15 e sgg.). Ma c'è la rassicurazione che Dio non abbandonerà neanche il peccatore. “Ma di là cercherai il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l'anima”(4, 29). Se nel cuore c'è uno spazio vuoto c'è il rischio che vi si infili un idolo. Bisogna amare la realtà senza fare di nulla un idolo. La conclusione del lungo discorso di Mosè riassume il senso del messaggio ed è veramente bello e consolante: “Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n'è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do', perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre” (4, 39-40). Il “lassù nei cieli e quaggiù sulla terra non è una indicazione geografica, ma vuol dire che Dio è dappertutto.
In ogni caso, è sempre più evidente che leggere queste pagine come parola di Dio è un'operazione ingenua e scorretta. La Bibbia non è mai direttamente parola di Dio, ma è una "parolizzazione" culturalmente datata della fede dei redattori che spesso vestono Dio con i panni del loro immaginario e della loro cultura. Dentro la loro umanissima testimonianza, noi qui ora cerchiamo, tra mille scorie, la "parola di Dio".
Guido Allice