mercoledì 7 dicembre 2016

L'ICONA AUNG SAN SUU KYI E I DOLORI DELLA POLITICA


Quando sei un'icona della lotta, reggere l'urto del governo diventa difficile. Non ci sono ragioni per dubitare che  Aung San Suu Kyi sia divenuta un simbolo universale della democrazia. Più difficile dire se lo resterà, ora che ha conquistato il potere nel suo Paese.
La storia personale di Aung riassume in sé tutti gli ingredienti dell'iconicità politica. Questa donna minuta e fragile in apparenza ha sopportato anni di restrizioni della propria libertà personale, battendosi contro la giunta militare in modo nonviolento in favore dei diritti umani e della democrazia.
Poi è arrivata la gloria del trionfo elettorale, emblema della rivincita sui generali che l'avevano ostacolata. E a causa dei quali ancora oggi, nonostante consacrata dal voto popolare dell'8 novembre 2015, le si nega la possibilità formale di diventare presidente – incarico ricoperto da un uomo di sua fiducia HTIN Kyaw – per il solo fatto di essere stata sposata con un cittadino britannico. Sia chiaro, è proprio lei che oggi ha in mano le sorti del Myanmar. Come aveva detto appena eletta: “Governerò da lontano, al di sopra  del presidente”. Ragion per cui, dagli onori della vittoria è costretta a passare agli oneri della politica. Quel che è accaduto a pochi altri simboli delle lotte per la democrazia, la giustizia sociale  e i diritti civili del XX secolo; a Mandela in Sudafrica, per esempio. Ma non al Mahatma Gandhi che già prima di essere assassinato, aveva fatto scivolare l'amaro calice del governo sulla testa del più pragmatico Nehru.
Non appena diventa figura istituzionale, su Aung sono cominciate a piovere pesanti critiche – proprio da quell'opinione pubblica liberale internazionale e dalle associazioni per i diritti umani che l'aveva sempre sostenuta. Come ha potuto un premio Nobel per la pace tacere  sulla persecuzione dei Rohingya? Davvero si è piegata alle convenienze elettorali  - guai a sostenere una causa in favore dei musulmani in un Paese buddista -, di fatto permettendo una catastrofe umanitaria su vasta scala? “Una donna il cui nome è stato sinonimo di diritti umani per generazioni, una donna che ha dimostrato coraggio incrollabile di fronte al dispotismo ha perpetuato le politiche inaccettabili del regime militare di cui ha preso il posto”, affonda il New York Times.
Una donna, appunto. “Chiediamoci se le stesse contestazioni sarebbero state mosse con la stessa veemenza anche contro un  uomo nel suo stesso ruolo”, osserva Cecilia Brighi, segretario generale dell'associazione Italia-Birmania e autrice de Le sfide di Aung San Suu Kyi per la nuova Birmania. Buona parte delle ombre che The Lady - come rispettosamente viene chiamata dal suo popolo – proietta intorno a sé derivano probabilmente dal suo carattere e dalla sua storia personale. “Di lei si dice che sia tenace, perfino testarda”, prosegue Brighi. Di fatto non è una donna del popolo. Appartiene all'aristocrazia politica del suo Paese, figlia di un padre della Patria come il generale Aung San. Sono stati poi i 15 anni di prigionia politica a forgiare le sue attitudini di governo, abituandola a dover decidere in solitudine. “Comunicava con gli oppositori al regime militare in esilio solo attraverso l'aiuto di Su Su Lwin, strettissima collaboratrice e moglie dell'attuale presidente Htin Kyaw”.
All'alba della nuova vita, quella di governo, The Lady sa di  trovarsi ormai a percorrere lo stretto sentiero che corre tra gli ideali e la politica reale. Perché nel ruolo creato ad hoc per lei di Consigliere di Stato, Aung deve venire a patti con l'esercito. “Dato che i militari hanno paura di perdere il loro potere, non stanno certo facilitando il processo di pace. Aung deve affrontare il tutto con grande intelligenza e cautela. E' necessario che sia diplomatica al massimo grado”, conclude Brighi.
Il fatto quotidiano. 28/11