venerdì 7 aprile 2017

Giovanni Miccoli studiare la Chiesa con speranza



«Mi sembra evidentissimo esempio di quel metodo di esposizione positiva di idee, di tendenze e di problemi, fatta prevalentemente di citazioni accuratamente scelte, che senza discutere, senza polemizzare - e senza approvare - tendono tuttavia a suggerire in chi abbia occhi per leggere e orecchi per intendere una chiara interpretazione e un giudizio». Così nel 1967 Giovanni Miccoli spiegava lo stile critico di Delio Cantimori, di cui era diventato allievo nel 1956 subito dopo la laurea, iniziando dalla sua lezione un percorso storico che si è chiuso la scorsa notte a Trieste, dove è morto all'età di 84 anni. Una descrizione che calza perfettamente anche al suo autore.
Medievista alla scuola dello stesso Cantimori, aveva iniziato la sua ricerca sulla storia della chiesa a Monaco, Londra e alla Normale di Pisa, lasciata nel 1968 per approdare a Trieste. Dove, al di là di una breve parentesi veneziana, avrebbe insegnato e lavorato tutta la vita. In una collocazione geografica e culturale che lo rendeva insofferente alle "mode", sia quando esse spezzettavano la materia in troppe varianti, sia all'opposto, quando volevano far sparire specialismi necessari inglobandoli nella partizione medievale-moderna-contemporanea che appaga solo gli editori di manuali da liceo.
Allergico al manierismo storiografico, Miccoli ha molto lavorato sul papato: sia polemizzando con l'apologetica clericaleggiante, come gli capitò di fare in alcune leggendarie stroncature; sia distinguendosi dal semplicismo di chi vedeva nell'istituzione una matriosca di culture reazionarie dall'immutato contenuto. Lui, che aveva individuato nella ideologia cattolica della cristianità un lessico di lungo periodo e una ideologia di riserva del cattolicesimo romano, vedeva nella denuncia di Benedetto XV della guerra come «inutile strage» un gesto «che fa in un colpo solo piazza pulita di tutte le elucubrazioni dei belligeranti» e delegittimava un'ideologia della guerra che sarebbe ritornata, sì, ma senza togliere nulla alla forza di quel monito.
Per questo - lo diceva alla rivista Bozze 79 - criticava le tendenze volte a confondere «il necessario sforzo di comprensione oggettiva dei fatti e delle situazioni con l'enunciazione di giudizi e di proposizioni accompagnate costantemente dalla cautelosa proposta del loro contrario. Sono le buone maniere di una storiografia che solo attraverso questa miscela un po' insipida pensa di riuscire a mantenersi distaccata ed equanime». Miccoli dunque aveva imparato presto a percorrere la storia a "spanne" ampie e con altrettanto grande rigore critico: sapendo che la fonte non è un feticcio ma l'attrezzo che illumina le innumerevoli pieghe della realtà, e che alcuni fenomeni "piccoli" - per esempio il clero friulano alle prese con le migrazioni - possono essere declinati in un senso stolidamente localistico, oppure diventare «spia» (il lessico è suo) di più ampi processi e percorsi. Irriverente verso il formalismo dei generi (la sua prima monografia su Pietro Igneo era lunga come un articolo, il suo "libro" sulla chiesa in Italia è nascosto nella storia d'Italia Einaudi) aveva così affiancato studi sui gregoriani e su Leone XIII, su Pier Damiani e su Mazzolari, su Francesco d'Assisi e su Lutero. Non aveva avuto paura a scrivere di Pio XII e dei suoi silenzi a otto anni dalla morte di Pacelli ed era stato fra i primi a sentire lo stacco fra Pio XI e il suo successore. Da anziano aveva analizzato la politica dottrinale di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, con un pathos che evocava impercettibilmente anche qualcosa del suo percorso interiore dentro il cattolicesimo, dismesso come militanza e assunto come oggetto di studio. Ma senza smettere di ritenere decisivo il momento in cui, come diceva citando Paul Ricoeur, attendeva dal futuro delle fedi e delle istituzioni religiose una «rinuncia a qualsiasi tipo di potere che non sia quello di una parola disarmata».
Alberto Melloni

(la Repubblica 29 marzo)