lunedì 15 maggio 2017

La nostra più grande occasione

Tanti anni fa, quando andai a lavorare come docente di Lettere alla Città dei ragazzi di Roma, la storica comunità educativa che accoglie minorenni non accompagnati provenienti da ogni parte del mondo, la cosa che più mi colpì fu l'esiguità del bagaglio che i miei scolari si portavano dietro al loro arrivo: stava tutto dentro un sacchetto di plastica. In pratica non avevano niente. L'assenza dei ricambi di vestiario pareva evocare la privazione della famiglia. In aula scoprivo un'altra mancanza, se possibile ancora pin grave: quella linguistica. Il che rischiava di trasformare Ismail in un invalido spirituale, Omar nell'ombra di se stesso e Mohamed in una scheggia impazzita. Per fortuna la grande maggioranza è sfuggita a questa sorte.

Quelli che Frantz Fanon all'inizio degli anni Sessanta definì "i dannati della terra" da molto tempo, ormai, non stanno più lontano, oltre i mari, a combattere la loro battaglia d'indipendenza contro le nazioni europee che li avevano assoggettati; al contrario, dopo essere sbarcati nei Paesi degli antichi dominatori, alla maniera di una nostra cattiva coscienza che torna a chiederci il conto, oggi vivono insieme a noi: fanno il pane che mangiamo, cambiano il pannolone agli anziani, ci servono il caffè, ritinteggiano la casa dove abitiamo, sostituiscono i tubi del lavandino, accompagnano a scuola i bambini, ci portano la spesa a casa. Arriva il momento in cui si fidanzano coi nostri figli, qualche coppia si sposa e così diventiamo parenti. Dopodiché, a rigor di logica, dovrebbe essere sempre più difficile pensarli come stranieri. Tuttavia questo processo di lenta ma ineludibile assimilazione (anche se forse sarebbe meglio parlare di meticciato) continua a sembrare a non pochi un boccone troppo grosso da deglutire: il tempo non basta mai, anche perché quasi ogni giorno, come l'acqua del fiume che sembra sempre la stessa e invece non è mai uguale, si presentano altri bisognosi, scampati ai naufragi, poveri in canna, senza arte né parte, proprio come quei miei primi allievi.

Chiedono l'elemosina all'uscita del supermercato, lavano i vetri della macchina al semaforo, ci aiutano a fare rifornimento ai distributori. Eccoli lì, questi frammenti della specie cui apparteniamo: escono dal nulla e camminano da soli lungo le provinciali, ai lati della carreggiata. Cercano 1avoro,oppure l'hanno già perso e se ne vanno via sconsolati. Esteriormente sono della nostra stessa pasta: buoni e cattivi, belli e brutti, simpatici e no. Quali siano i loro mondi interiori, questa resta sempre una domanda interessante; ma forse la più urgente a cui dobbiamo rispondere è un'altra, strettamente collegata: cosa scatta dentro di noi quando li incrociamo?

C'è chi li scansa infastidito, come se la nuda umanità di queste persone, uomini e donne reduci da traumi profondi di cui recano in viso i segni, fosse in grado di aprire botole segrete che credevamo potessero restare chiuse per sempre: antiche questioni affrontate da giovani e poi lasciate insolute, come spine nel fianco, riguardo al senso che avremmo voluto dare alla nostra esistenza. Chissà, forse anche il più protervo fra coloro che sventolano le ultime bandiere populiste, se provasse a raschiare il giardinetto fiorito che lui vuole recintare ad ogni costo con lo steccato di legno, scoprirebbe che le sue tanto invocate radici sono intrecciate con quelle sempre vituperate del vicino: tocchi una nervatura e fai vibrare tutta la pianta.

Ma ci sono poi, fortunatamente numerosi, coloro che, posti di fronte all'indigenza così marcata e scandalosa dell'immigrato, non sanno trattenere lo sgomento, la rabbia, l'indignazione, oppure la vergogna. Vorrebbero soccorrerlo e magari lo fanno senza riuscire a trovare il modo in cui incanalare tale spinta istintiva. Del resto, la dimensione politica che dovrebbe supportarli con una trama istituzionale, uno sfondo civico di riferimento, ha perso credibilità, lasciando gli strumenti di comunicazione nelle mani dei singoli leader i quali, con un linguaggio logoro,troppo spesso si limitano a lucrare consenso dalla protesta dei cittadini, senza indicare un'idea del mondo sociale che vorrebbero realizzare.

Sembra di sentire una vocina che ci spingerebbe a entrare in azione ogni qual volta assistiamo all'oltraggio di un principio in cui crediamo: ma se ci portassimo a pranzo Abdullah, dopo come potremmo lasciarlo andar via senza ospitarlo a casa, sapendo che lui non sa dove andare? Smarriti e angosciati, rischiamo di precipitare in due strapiombi: da una parte la rivendicazione identitaria, per proteggerci dalla paura del confronto autentico; dall'altra quello che Alain Finkielkraut ha definito "il romanticismo verso gli altri", come se il profugo nascondesse chissà quali inattingibili tesori dj verità.

Questo tumulto etico, da cui talvolta nasce la motivazione a praticare attività di volontariato per dare una risposta al senso di colpa che proviamo, non dovrebbe venire soffocato. Il marasma interiore che ci prende di fronte a Irina e Bubacar potrebbe rappresentare la grande occasione che noi, in particolare, abitanti del Bel Paese, non dovremmo lasciarci sfuggire, sia per motivi geografici, in quanto siamo al centro del Mediterraneo, sia pensando alla base umanistica che abbiamo fornito al Vecchio Continente. Soprattutto i giovani, non più inebriati dalle decrepite ideologie veteronovecentesche, ma già consapevoli dei pericoli connessi alla rivoluzione informatica che rischia di deformare il valore dell'esperienza, nell'incontro coi loro coetanei immigrati hanno la possibilità concreta di uscire dall'indifferenza, dal cinismo, dall'arroganza e, in ultima istanza, dalla solitudine che sembra attanagliare la società occidentale sempre pin vecchia e spiritualmente fragile. È questa la ragione per cui le cinquecento famiglie italiane che stanno ospitando i rifugiati, lo sappiano oppure no, rappresentano, nella risonanza dell'esempio canadese, l'avanguardia della nuova Europa.
Eraldo Affinati

(Il Venerdì 5 maggio)