martedì 6 giugno 2017

LA CLASSE OPERAIA NON VA PIÙ IN PARADISO


Era il 1977. Ventenne, esordivo da giornalista nelle testate del Partito comunista italiano, ai tempi di Enrico Berlinguer. Città Futura, Rinascita. Facevo l'inviato sindacale. Frequentavo gli operai della Fiat-Mirafiori, dell'Alfa Romeo di Arese o Pomigliano d'Arco. Ammiravo il leader dei metalmeccanici Bruno Trentin. La classe operaia, sulle sue spalle, doveva traghettare l'Italia verso un futuro migliore. Non è andata così. Ho celebrato i quarant'anni di attività a Detroit, altra capitale dell'auto. Ho incontrato lì altri metalmeccanici: quelli che hanno votato Trump. Fra queste estremità della mia vita c'è in mezzo un segnale premonitore: ero corrispondente a Parigi a metà degli anni '80, quando di colpo la "banlieue" operaia passò dal Partito comunista al Fronte nazionale di Le Pen padre.
Com'è stato possibile? Perché la classe operaia - quel poco che ne rimane in un'industria stremata dalle delocalizzazioni; o i mestieri di servizio, che pagano ancora meno - è diventata in molti paesi la base delle destre e dei populismi? Sarà questo lo spunto di partenza delle mie nuove performance teatrali. I primi "musical" dedicati al presidente. Trump Blues andrà in scena al festival La Repubblica delle idee il 18 giugno, a Bologna. L'Età del Caos: il gradimento delle élite genera mostri, avrà la sua prima al Festival di Spoleto il 9 luglio. Sul palcoscenico con me ci sarà la coppia di musicisti che mi accompagnavano quando spiegavo l'economia con i Beatles: Valentino Corvino e Roberta Giallo. Stavolta ci sarà un attore vero: mio figlio Jacopo, co-autore delle sceneggiature e interprete. Con lui mi attendo più spettacolo, più teatro, rispetto alle mie performance precedenti che erano nella categoria del "giornalismo in scena". E poi il duetto padre-figlio metterà a nudo la tensione generazionale. Jacopo, come la maggioranza dei suoi coetanei, americani o europei, ha un reddito che è una frazione di quello di suo padre, precarietà totale, aspettative di miglioramento economico a dir poco aleatorie. Anche questo fa parte del tradimento delle élite, delle storture gravi che hanno portato Trump alla Casa Bianca.
La colonna sonora ce la daranno i Rolling Stones, Bob Dylan, Simon 86 Garfunkel. Alcuni brani li ha scelti Trump per me: nonostante le diffide dei Rolling Stones, i suoi comizi elettorali si aprivano con You Can't? Always Get What You (non puoi sempre avere quello che vuoi). Titolo premonitore, una sorta di avvertimento subliminale alla sinistra americana.
Altre canzoni le ho scelte io per la loro cattiveria, amarezza, brutalità, La Sinfonia per il diavolo, sempre dei Rolling Stones, è una feroce rivisitazione della storia umana in cui il demonio rivendica orgogliosamente le nostre atrocità. Like a Rolling Stone di Bob Dylan fu uno strappo rispetto alle utopie buoniste degli anni '60. Lì appare quella frase, "to be on your own" (essere solo, per conto tuo, abbandonato dagli altri), che presagiva la fine del sogno solidaristico, delle grandi esperienze collettive, dell'unione mistica con tutti gli animi ottimisti e progressisti. Joan Baez, in quegli anni sua compagna artistica e sentimentale, non finisce di rimproverargli quel cinismo neppure oggi. Per capire ciò che è accaduto alla classe operaia, prendo in prestito un'immagine usata dalla scrittrice Arlie R. Hochschild nel bellissimo libro Strangers in Their Own Land. I bianchi poveri che hanno votato Trump immaginano l'accesso al Sogno Americano come una lunghissima fila, che si muove sempre più lentamente o addirittura si è fermata. Ogni tanto dalla fine della coda si staccano gli ultimi arrivati. Minoranze etniche, minoranze sessuali. La sinistra premurosa li fa accomodare più avanti. Così i penultimi diventano ultimi; e sempre più rabbiosi.
Federico Rampini

Federico Rampini
è da molti anni corrispondente di
Repubblica da New York, dopo esserlo stato da Bruxelles, San Francisco, Pechino. È autore di una trentina di saggi.

(D la Repubblica, 27 maggio 2017)