sabato 22 luglio 2017

In braccio a Dio Madre

"Jahweh, non si esalta il mio cuore,
non si levano superbi i miei occhi,
non cammino verso cose grandi
o per me prodigiose.
Io, invece, ho l'anima mia distesa e tranquilla:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l'anima mia.
Israele, attendi Jahweh,
ora e sempre!"


Su questa caldissima preghiera del salmo 131 si sono riversate le espressioni più appassionate. Tutti gli studiosi riconoscono che ci troviamo di fronte ad una autentica "perla preziosa". A. Gelin parla addirittura del più bel salmo dell'intera Bibbia. Gianfranco Ravasi, nel suo prezioso commento ai Salmi, cita gli Autori e gli elogi che essi tessono di questo salmo di fiducia. "Il fascino di questo tenerissimo salmo di fiducia (anzi, di uno degli esemplari più lucidi di canti fiduciali) è legato all'immagine elementare di una madre e del bambino addormentato tra le sue braccia dopo essere stato allattato" (G. Ravasi). Anzi, "non si tratta tanto del bimbo allattato perché il termine ebraico sembra riferirsi al bimbo svezzato e l'immagine è quella, soprattutto orientale, di un bimbo che la madre mette sul suo dorso" (L. Monloubou). Lo stesso Autore parla della dolce intimità che si stabilisce tra il bimbo e la madre.
Le scritture di Israele sono molto insistenti su questo linguaggio, specialmente quando si vuole alludere al rapporto Dio-popolo.
Noi cristiani, spesso ancora vittime del pregiudizio di aver inventato i linguaggi della tenerezza di Dio e di averne il monopolio, facciamo fatica a rintracciare nelle scritture d'Israele i passi che esprimono l'intimità dolcissima tra Dio e il credente, tra Dio e il suo popolo. È solo una questione di ignoranza o, se vogliamo, di non conoscenza.
Il capitolo 11 del profeta Osea ci offre un saggio di questo rapporto pieno di attenzioni e di intimità: "Io ho insegnato a Efraim a camminare. Ho tenuto il mio popolo tra le mie braccia... L'ho attirato a me con affetto e amore. Sono stato per lui come uno che solleva il suo bambino fino alla guancia. Mi sono abbassato fino a lui per imboccarlo". Il Terzo Isaia prosegue:
"Avrò cura di voi come una madre che allatta il figlio, lo porta in braccio e lo fa giocare sulle proprie ginocchia. Come una madre consola il figlio, io vi consolerò a Gerusalemme. Quando vedrete tutto questo, avrete una grande gioia e riprenderete vita come l'erba a primavera" (66,12-13). Di questa poesia d'amore profumano anche le righe del profeta Isaia: "Può una donna dimenticare il suo bambino o non amare più il piccolo che ha concepito? Anche se ci fosse una tale donna, io non ti dimenticherò mai, o Gerusalemme. Ho disegnato sulle palme delle mani la tua immagine, ho negli occhi la visione delle tue mura" (49,15-16).
Siamo davvero nel solco di Abramo, l'amico di Dio.
Questo clima "riposante", che passa dall'orante al lettore, fa assaporare lo spessore della pace.
Molte volte nei salmi si sottolinea l'affanno del cuore, il travaglio che cerca la pace e la implora. L'angoscia e la disperazione cercano il volto di Dio. Il salmista "ha fiducia nel suo amore" (Salmo 13). La via della pace è sapienzialmente nota: "Affida il tuo affanno al Signore ed egli ti darà aiuto..." (Salmo 55), ma il salmo 131 ci immette nel linguaggio plastico ed emotivo del quadro di vita più consueto in quel tempo (e un po' meno oggi) di un bimbo completamente abbandonato e rilassato tra le braccia di sua madre.
Si notino alcuni particolari. Non si tratta di un bimbo che è preso in braccio per un dondolio finalizzato al sonno o alla sedazione del pianto. Probabilmente c'è qualcosa di più di un bimbo sazio che si addormenta tra le braccia della madre dopo una buona poppata. Non si tratta di una pausa di quiete, di un semplice sonnellino ristoratore; il bimbo "resta tranquillo e sereno" oppure, in altra traduzione, "ha anima distesa e tranquilla" (se specchiamo in lui il volto del credente che si paragona al bimbo).
Esiste uno splendido testo egiziano tratto dalla stele di Neb-Ré (Ramses II, verso il 1250 a.C.) e dall'iscrizione sullo zoccolo di una statua probabilmente del XV sec. a.C.. Ecco il testo che riprendo dal già citato volume di Ravasi:
"Tu sei Amon, il Signore del silenzio
che accorri al richiamo del povero.
Io ti invoco nella mia miseria
e tu vieni a liberarmi. Tu dai il respiro all'infelice,
tu mi liberi quando sono prigioniero...
due volte felice colui che riposa beatamente sul braccio di Amon,
di Amon che ha cura del silenzioso.
che aiuta il povero
e dà il respiro a colui che lo ama".

Anche nella mistica indù troviamo questo atteggiamento "infantile" nei confronti di Dio. Il mistico Tukaram nel suo salmo LXIV si rivolge così alla dea Vithai:
"Nella freschezza dell'ombra che lei mi dona,
mia madre Vithai lascia crescere il suo latte d'amore.
Abbracciato a lei, io metterò le mie labbra sul suo seno e lo succhierò.
Il mio corpo è nutrito dal latte di grazia
che essa fa scendere per me;
questa ambrosia mi ha ridato la vita...
davanti, dietro, lei mi circonda e mi protegge.
Io ignoro l'inquietudine, sono il piccolo bimbo amato da Vithai".

Il salmo, riflettendo la pace del bimbo nella figura della persona adulta che prega, ci parla di una "situazione" di radicale fiducia. E l'intera vita che "sta", è "affidata" alle braccia di Dio.
Invece, quando il nostro cuore si esalta e i nostri occhi si fanno superbi, alteri e ci mettiamo in cammino verso cose che portano il marchio della presuntuosa grandezza umana, allora la via della pace è preclusa e sbarrata.
Il redattore del salmo è cosciente di abitare ad un bivio: o la strada dei desideri onnipotenti, dell'autoaffermazione come autosufficienza oppure il sentiero della fiducia. Forse qualche volta nella sua vita ha battuto la via della superbia ed ha imparato a sue spese di essersi cacciato in una direzione di smarrimento. Il suo cuore lentamente è diventato saggio. È ritornato sui suoi passi, anzi ha deciso di mettersi sul cammino della sapienza, della fiducia in Dio. Forse qualche volta, scoraggiato, si è sottratto alle sue responsabilità. Ora il calore di quell'abbraccio e di quell'affidamento gli permetterà di rituffarsi con audacia nella vita.
La fiducia del salmista non è una ideologia, un dogma, una filosofia. Egli probabilmente in altri momenti della sua vita ha esperimentato l'incapacità di fidarsi di Dio. Anche il cammino della fiducia in Dio è un percorso che gli è stato davanti, una direzione in cui ha faticosamente tentato di aprirsi un varco. Per lui fidarsi di Dio ha rappresentato un sentiero che Dio stesso ha reso praticabile, che solo Dio poteva rendere percorribile.
L'esortazione finale punta il dito verso ciascuno/a di noi. Siamo l'Israele che attende Dio, ora e sempre? Siamo incamminati lungo questo sentiero della fiducia che ci regala la "pace" dentro l'altalena dell'esistenza quotidiana? Non si tratta di ritornare alla pace dell'incoscienza e dell'irresponsabilità, ma di sapere che, mentre usiamo le nostre braccia, stiamo nelle braccia di Dio. Come vorrei sapermi inoltrare su questo sentiero che la fede di Israele e la fede di Gesù ci testimoniano. O Dio di Abramo, di Mose, di Miriam, di Gesù, aumenta la nostra fede.

Franco Barbero