Ero
su un treno regionale, fermo a una stazione. Un ragazzo disabile in
carrozzina, il busto piegato in avanti da un’evidente
malformazione, è salito aiutato da tre persone. Lo spazio riservato
ai portatori di handicap era occupato da due ingombranti valigie, il
controllore ha chiesto a voce alta: “Di chi sono questi bagagli?!”.
Un uomo si è alzato per spostarli, lamentandosi del fatto che nel
vano apposito non ci stessero, non sapeva dove metterli. Il ragazzo,
mentre la sua carrozzina veniva legata con le cinghie, non ha detto
niente, negli occhi la stanchezza di chi è abituato a reazioni
simili. Tornando al suo posto l’uomo si è lasciato sfuggire una
frase, a bassa voce: “Perché questi non se ne stanno a casa invece
di andare in giro?”. Lo abbiamo sentito in due, io e una signora
anziana seduta vicino a me. Stavo per reagire duramente quando lei mi
ha anticipato, si è alzata, si è piazzata davanti all’uomo e gli
ha detto: “Si dovrebbe vergognare, perché non se ne sta a casa lei
invece di andare in giro e costringerci a sentire le sue
sciocchezze!”.
L’uomo
ha assunto d’un tratto l’espressione di un bambino sgridato dalla
madre. “Ha ragione”, ha detto. “Mi scusi, scusatemi tutti, sono
stanchissimo e ho proprio esagerato”. Poi è andato dal ragazzo:
“Scusami davvero, sono un imbecille”. L’altro gli ha sorriso:
“Tranquillo, da quello se vuoi si può guarire”. Si sono
presentati e hanno cominciato a parlare. Il ragazzo si chiama C., è
un ingegnere informatico. L’uomo si chiama S., è un metalmeccanico
pendolare. Abitano a neanche dieci chilometri e non si erano mai
incontrati. Quel giorno invece si sono visti.
Questa
situazione sarebbe potuta finire in tanti modi diversi, invece ho
assistito a questo piccolo miracolo che ha avvicinato due esseri
umani.
Matteo
Bussola – Repubblica
24 luglio