domenica 18 agosto 2019

L'ANZIANO IN ITALIA NEL 2025


Marco Trabucchi

Il modo più realistico per presentare uno scenario fedele alla realtà dell’anziano è indicare una prospettiva a breve su come sarà la vita nelle età avanzate tra qualche anno, alla metà del prossimo decennio. Siamo abituati a leggere prospettive sul nostro mondo che riguardano anni lontani; da più parti si discute su come sarà la vita degli anziani nel 2040 o nel 2060. Non ritengo che queste previsioni abbiano alcunché di realistico; infatti, entro i prossimi 20-40 anni basterebbero, in negativo, una guerra anche di limitate dimensioni, un immigrazione incontrollata o, in positivo, una scoperta scientifica riguardante alcune delle principali malattie di oggi per cambiare completamente lo scenario. Invece la prospettiva a breve, i prossimi sei anni, è più realistica, seppure anch'essa con mille interrogativi per i quali si deve cercare una risposta.
Di seguito sono presentati solo alcuni spunti per capire la vita di chi invecchia; il lettore saprà trarne indicazione per costruire una propria visione e quindi per collocare nel modo più efficace il proprio personale impegno e quello della comunità nella quale vive.
Un ruolo particolare, da citare all’inizio di questa breve rassegna, spetta allo studio delle nuove scoperte nel campo della intelligenza artificiale come esempio di un’evoluzione che interferirà in modo rilevante sulla vita di ogni cittadino, in particolare delle persone fragili. E’ però necessario che chi decide i destini del mondo non pensi di trarre ulteriori guadagni, dimenticando i bisogni di chi soffre, individui che spesso non sono nemmeno in grado di pagare i servizi loro offerti, sia quelli di oggi che quelli del prossimo domani. L’intelligenza artificiale e i big data sono due esempi da osservare con attenzione, perché dalla loro evoluzione si potrà capire se il progresso aumenterà le differenze tra ricchi e poveri, forti e deboli, sani e malati, giovani e vecchi o se, come auspichiamo, farà compiere un salto in avanti al nostro sistema di welfare, rivolto prima di tutto, per definizione a chi è più fragile, migliorando le sue prestazioni in senso quantitativo e qualitativo.
Vorremmo in questo articolo offrire una visone delle diverse realtà che si muovono nel futuro dell’anziano e che condizioneranno la sua salute e il suo benessere. Sono aspetti che in modo diretto riguardano anche l’intera collettività; discutere del futuro dei vecchi diventa quindi un modo per farsi carico del futuro delle nostre comunità, sia per le dimensioni dei fenomeni sia per i coinvolgimenti organizzativi, economici, psicologici, morali.
La cultura che ispira queste righe non è a priori pessimista, perché chi lavora nel campo ha assistito agli enormi progressi del nostro tempo recente e quindi non può partire da un atteggiamento negativo. Ora si tratta di capire (prevedere) se le curve evolutive manterranno nei vari ambiti le stesse tendenze o se invece si svilupperanno in altre direzioni, non necessariamente peggiori rispetto al passato. La logica di fondo è quella espressa mirabilmente da Dionigi nell’apertura del suo recente volumetto “Osa sempre”, quando afferma che “dobbiamo attrezzarci per capire e renderci amico questo futuro-presente carico di complessità e incognite, perché esso mette in discussione le nostre identità consolidate e rassicuranti…”. La conoscenza dei fenomeni contribuisce a renderli nostri amici? Non mi illudo che il processo sia così semplice e rapido, però l’incontro tra le nostre speranze e il nostro impegno con una realtà per molti aspetti in evoluzione autonoma rispetto alle nostre azioni dirette porta a percorsi che possono avere un’evoluzione positiva.
Vorremmo prima di tutto prospettare una visione diversa da quella identificata dal titolo di un famoso editoriale di qualche anno fa: “Being old in 2040 will be no fun”; sarebbe una resa ingiustificata sul piano di quanto possiamo prevedere concretamente e possiamo modificare con le nostre azioni. Anche sul piano ideale sarebbe riconoscere che la nostra specie non è stata in grado di valorizzare il più grande dono che le è stato fatto, cioè il prolungamento della durata vita fino ai livelli di oggi.

Uno degli aspetti che caratterizzano da sempre la vita degli individui è il processo di personalizzazione; la sua concettualizzazione è però recente e così anche le sue conseguenze sui comportamenti.
La personalizzazione, cioè la formazione progressiva della persona, è regolata dalla genetica e dallo stile di vita e quindi anche l’invecchiamento è modulato dalle circostanze esterne, dall’evoluzione demografica, dall’epidemiologia, il costume , la cultura, l’organizzazione sociale, i servizi. Per costruire un’ipotesi credibile dell’evoluzione della vita del singolo individuo è necessaria un’analisi complessiva, secondo le regole di una visione che storicamente è stata patrimonio della geriatria, che ha identificato nella valutazione multidimensionale l’approccio corretto per comprendere le dinamiche vitali della persona che invecchia. Nell’età avanzata aumenta la sensibilità agli eventi esterni e quindi sempre maggiore sarà il loro effetto sulla vita; ogni persona sarà identificabile come un “fenotipo instabile”, caratterizzato da un genotipo sensibile all’assommarsi di interazioni con il vissuto, sempre diverse e di diversa incisività; pensare alla vita nelle età avanzate come a una condizione rigida di perdita, senza alcuna modulazione, non corrisponde quindi alla realtà. Certo, è doveroso considerare che la fragilità che caratterizza la vita di molti anziani riduce la loro capacità di resilienza mentre aumenta il rischio di risposte inadeguate agli eventi vitali; però il riconoscere i diversi percorsi sia soggettivi che oggettivi è il punto di partenza per qualsiasi intervento che voglia contribuire al benessere.

Invecchiare non è una malattia
Questa indicazione ha rappresentato nel passato più lontano una rivoluzione concettuale, poi è stata accettata, soprattutto perché permetteva una visone non negativa del passare degli anni. Oggi, uno sguardo alla demografia e all’epidemiologia conferma che il tempo incide in modo diverso da un individuo all’altro e non può quindi essere considerato una maledizione (un “induttore” di malattia).
Non si deve fare l’errore di estrapolare dal passato l’evoluzione futura, senza considerare le possibili multiformi interferenze esercitate dai cambiamenti degli stili di vita, dalla comparsa di eventi naturali o sociali inattesi, dalle scoperte della medicina.
Per esempio, non è ancora chiaro in base a diversi studi, se la curva di aumento della spettanza di vita alla nascita si sia almeno parzialmente rallentata. E se così fosse, quali ne sono le determinanti? Come è possibile prevedere l’evoluzione di un fenomeno che non abbiamo nemmeno compreso nelle sue tendenze espansive e che, secondo alcuni, oggi si è rallentato?
Tra i comportamenti delle popolazioni che influenzeranno certamente la vita dell’anziano nei prossimi anni vi è la crisi della famiglia, espressa da alcuni numeri altamente esplicativi. I matrimoni sia civili che religiosi sono in costante diminuzione, perché sostituiti dalle unioni informali, non regolate. Allo stesso tempo si osserva un fenomeno mai prima registrato, cioè l’aumento dei divorzi fra gli ultra sessantenni, che sono il 20% del totale. Inoltre, come evolverà la natalità nei prossimi anni? Cosa è destinato a cambiare rispetto agli attuali 1.3 figli per ogni donna? In ogni modo si deve ricordare che qualsiasi evoluzione della natalità potrà sviluppare i suoi effetti solo dopo anni, cioè quando i potenziali neonati di oggi raggiungeranno l’età di lavoro, contribuendo così da una parte attraverso la tassazione all’aumento della disponibilità economica per i servizi e dall’altra direttamente all’assistenza alle persone anziane.
Riguardo all’evoluzione nei prossimi anni del sistema assistenziale, un aspetto cruciale è rappresentato dalla disponibilità delle “badanti”. Cosa accadrà nel 2025? Il fabbisogno nel nostro paese tenderà ad aumentare, senza alcuna programmazione? la crisi economica dei paesi dell’est europeo è destinata a non finire entro pochi anni e quindi l’emigrazione femminile continuerà con i ritmi elevati di oggi? Fino a quando la povertà prevarrà sulle scelte personali e famigliari, anche con il rischio di indurre la cosiddetta “sindrome italiana”. Questo settore è delicatissimo nella prospettiva a breve, ma sembra che nessuno abbia interesse a controllarlo; troppe sarebbero le problematiche da affrontare, legate all’immigrazione non regolata, ai rapporti di lavoro in nero, alla mancanza di preparazione specifica per l’assistenza delle persone non autosufficienti, alle conseguenze sulla salute delle badanti e sugli equilibri delle loro famiglie lontane.
Il problema delle badanti richiama quello dell’immigrazione in generale, che necessariamente sarà un problema da affrontare nel breve periodo; la condizione di una società che invecchia costringerà ad abbandonare pregiudizi di varia origine sotto la pressione della mancanza di manodopera, sia per creare ricchezza in generale sia nello specifico per garantire i servizi. Saremo in grado di fare scelte sufficientemente intelligenti?

Non è questa la sede per analizzare i vari aspetti dell’evoluzione epidemiologica dei prossimi anni; limito l’osservazione, perché è un esempio particolarmente significativo, all’analisi dell’andamento di prevalenza e incidenza delle demenze, e della malattia di Alzheimer in particolare. Non vi è dubbio che il numero assoluto dei malati è destinato ad aumentare sia nei paesi ad alto reddito sia negli altri (in questi ultimi l’aumento è molto più rilevante in conseguenza dell’invecchiamento più rapido della popolazione avvenuto anche in queste aree). Il punto di particolare interesse è però l’analisi della riduzione della prevalenza di demenza in individui nati a distanza di un certo numero di anni; nelle coorti più giovani si assiste ad un fenomeno inatteso, e ancor oggi inspiegato (conseguenza di un miglioramento della stile di vita, fenomeno peraltro non così vistoso in periodi brevi)? Resta però come indicazione di fondo sulla possibilità di intervenire ulteriormente per ridurre “l’epidemia”. Non vi sono dati che suggeriscano un rallentamento del fenomeno nei prossimi anni; dal punto di vista complessivo è però poco rilevante rispetto all’aumento del numero delle persone anziane, che porta alla continua crescita del numero delle persone affette da patologie della cognitività. C’è da sperare che ulteriori progressi possano esercitare un’influenza più incisiva, riducendo ancor di più il numero dei malati, fino ad equilibrare l’effetto dell’aumento della spettanza di vita? Non siamo in grado di prevedere il futuro, però alcuni percorsi di studio e ricerca sono promettenti, tra i quali la crisi dell’interpretazione monogenetica della demenza, le differenze tra uomo e donna, l’impennata della prevalenza dopo i 75-80 anni. Ma quanto dovremo aspettare per avere prospettive di cura?
Come avviene per le demenze, anche per molte altre malattie croniche lo scenario evolutivo non è chiaro; un aspetto particolarmente critico è rappresentato dagli effetti di queste sulla perdita dell’autosufficienza, perché spesso può essere modulato dalle circostanze esterne. Si pensi, ad esempio, al diabete, non prevenibile alla luce delle nostre conoscenze di oggi; al contrario, i suoi effetti negativi sull’autonomia della persona anziana possono essere significativamente ridotti attraverso una medicina colta e preparata e una adeguata sensibilità collettiva, che non accetta di essere dominata dal fatalismo.

La solitudine accompagnerà la vita dei vecchi nei prossimi anni?
Oggi la solitudine dell’anziano è una condizione pervasiva. L’Istat ha rilevato che il 27.7% degli ultra 75enni “non ha nessuno su cui contare in caso di bisogno”. L’evoluzione complessiva sembra indicare un peggioramento progressivo di questa realtà, con le conseguenze ben note non solo sul piano soggettivo, ma anche su quello oggettivo delle condizioni di salute. Purtroppo le azioni sul singolo e sulle comunità non sembrano destinate a raggiungere risultati significativi a breve; però non vi sono alternative, se non quelle educative per dimostrare che l’egoismo delle scelte a tutte le età si riflette in modo pesante nella vecchiaia e quelle politiche per ipotizzare una città diversa.
Gli interventi per costruire luoghi dove sia possibile condividere il tempo e il dolore di non aver nessuno che possa intervenire nel momento del bisogno non potranno dare risultati immediati; però se in ogni città si potesse iniziare a costruire una “social street” che mette l’anziano solo al centro dell’interesse e delle azioni dei suoi concittadini le dinamiche relazionali potrebbero cambiare.
La realtà della solitudine assume molte diverse facce; è impossibile descrivere tutti i “volti” attraverso i quali esprime le sue conseguenze negative. Una condizione sulla quale sembra utile richiamare l’attenzione è quella della vicinanza con animali, che può essere interpretata come un valido tamponamento delle situazioni di solitudine, ma anche, meno positivamente, come modo per indirizzare l’attenzione lontano dagli affetti naturali all’interno della famiglia e delle relazioni amicali. Non si vuole interpretare ogni comportamento secondo indicazioni razionali, ma un’osservazione attenta permette di raccogliere informazioni utili per indirizzare i comportamenti individuali e collettivi.
L’esperienza che si va diffondendo anche in Italia delle “dementia friendly community” è particolarmente significativa, perché ha portato a risultati tangibili e misurabili anche in tempi relativamente brevi. Se ogni città iniziasse questo processo fondativo in un quartiere di 20-30.000 abitanti si diffonderebbe un modello di relativamente facile adozione e di grande utilità. Infatti, iniziando dalle persone affette da demenza e dalle loro famiglie si diffonde nella comunità uno stile della relazioni che ricade positivamente su tutte le condizioni di fragilità, in particolare quelle degli anziani.
Vi è scetticismo attorno alla possibilità di reali cambiamenti a breve termine rispetto alla solitudine delle persone anziane; l’esperienza però insegna che anche iniziando da realizzazioni limitate si può segnare un percorso. In questo ambito la rinuncia è un comportamento sociale dannoso. E’ infatti sempre più chiaro, in base a dati indiscutibili della ricerca clinica, che la costruzione di ponti, la vicinanza e l’accompagnamento esercitano un effetto salutare in senso stretto; se la solitudine è patogena, la generosità individuale e collettiva allunga la vita, allontana le malattie, riduce la possibilità di perdita delle funzioni cognitive.

Il sistema di welfare sarà in grado di proteggere gli anziani?
Quale futuro avrà nei prossimi anni il sistema italiano di welfare che si è progressivamente trasformato da luogo di integrazione sociale degli individui a sistema fortemente individualista, con operatori chiamati solo all’efficienza, dimenticando spesso le profonde motivazioni del loro servizio, ciò la difesa della libertà e della dignità di ogni cittadino?
Quale futuro di crisi si prospetta per un sistema di welfare non più in grado per motivi economici di incontrare i desideri della popolazione, che l’atmosfera culturale di questi anni ha definito come diritti? In questo modo si provoca la forte frustrazione di molti cittadini, illusi di poter ottenere qualsiasi servizio e che di fronte all’impossibilità di riceverli, diventano aggressivi e tentati di cercare capri espiatori per il loro disagio.
Riusciremo, anche se chi scrive nutre molti dubbi, a ritrovare attorno all’assistenza all’anziano, ambito di particolare disponibilità verso una prospettiva solidaristica, il legame sociale oggi ridotto, che ridarebbe senso ai servizi come luoghi per la costruzione di ponti e non solo come ambiti per offrire prestazioni puntiformi, inadeguate alle esigenze di predisporre momenti di solidarietà, peraltro sempre inferiori rispetto alla attese-pretese?
Nei prossimi anni potrà avvenire un qualche cambiamento epocale in grado di far ritornare l’organizzazione pubblica del nostro paese verso la logica di un welfare che lega le persone tra di loro, garantendo così allo stesso tempo risposte più efficaci ai veri bisogni e la sconfitta della solitudine?
L’augurio è che a queste domande possa essere data una risposta positiva; però se non si riuscirà a ricostruire un senso della vita sia per gli individui che per le comunità l’impresa sarà particolarmente difficile. I moltissimi ostacoli organizzativi, economici, politici potranno essere superati solo da un modello di convivenza per il quale la vita ha sempre un senso, anche quella più povera e desolata.

Gli aspetti discussi precedentemente non delineano un futuro certo per la vita dell’anziano; permettono però un certo ottimismo, soprattutto perché mettono nella mani (e nella mente) delle collettività il criterio che la vita degli anziani non è neutra rispetto alle condizioni che caratterizzano il loro tempo che passa. E’ una responsabilità non lieve: la conoscenza dei fenomeni, e delle loro dinamiche in positivo e in negativo, non permette ambiguità.