Marco Trabucchi
Il modo più realistico per presentare
uno scenario fedele alla realtà dell’anziano è indicare una
prospettiva a breve su come sarà la vita nelle età avanzate tra
qualche anno, alla metà del prossimo decennio. Siamo abituati a
leggere prospettive sul nostro mondo che riguardano anni lontani; da
più parti si discute su come sarà la vita degli anziani nel 2040 o
nel 2060. Non ritengo che queste previsioni abbiano alcunché di
realistico; infatti, entro i prossimi 20-40 anni basterebbero, in
negativo, una guerra anche di limitate dimensioni, un immigrazione
incontrollata o, in positivo, una scoperta scientifica riguardante
alcune delle principali malattie di oggi per cambiare completamente
lo scenario. Invece la prospettiva a breve, i prossimi sei anni, è
più realistica, seppure anch'essa con mille interrogativi per i
quali si deve cercare una risposta.
Di seguito sono presentati solo alcuni
spunti per capire la vita di chi invecchia; il lettore saprà trarne
indicazione per costruire una propria visione e quindi per collocare
nel modo più efficace il proprio personale impegno e quello della
comunità nella quale vive.
Un ruolo particolare, da citare
all’inizio di questa breve rassegna, spetta allo studio delle nuove
scoperte nel campo della intelligenza artificiale come esempio di
un’evoluzione che interferirà in modo rilevante sulla vita di ogni
cittadino, in particolare delle persone fragili. E’ però
necessario che chi decide i destini del mondo non pensi di trarre
ulteriori guadagni, dimenticando i bisogni di chi soffre, individui
che spesso non sono nemmeno in grado di pagare i servizi loro
offerti, sia quelli di oggi che quelli del prossimo domani.
L’intelligenza artificiale e i big data sono due esempi da
osservare con attenzione, perché dalla loro evoluzione si potrà
capire se il progresso aumenterà le differenze tra ricchi e poveri,
forti e deboli, sani e malati, giovani e vecchi o se, come
auspichiamo, farà compiere un salto in avanti al nostro sistema di
welfare, rivolto prima di tutto, per definizione a chi è più
fragile, migliorando le sue prestazioni in senso quantitativo e
qualitativo.
Vorremmo in questo articolo offrire una
visone delle diverse realtà che si muovono nel futuro dell’anziano
e che condizioneranno la sua salute e il suo benessere. Sono aspetti
che in modo diretto riguardano anche l’intera collettività;
discutere del futuro dei vecchi diventa quindi un modo per farsi
carico del futuro delle nostre comunità, sia per le dimensioni dei
fenomeni sia per i coinvolgimenti organizzativi, economici,
psicologici, morali.
La cultura che ispira queste righe non
è a priori pessimista, perché chi lavora nel campo ha assistito
agli enormi progressi del nostro tempo recente e quindi non può
partire da un atteggiamento negativo. Ora si tratta di capire
(prevedere) se le curve evolutive manterranno nei vari ambiti le
stesse tendenze o se invece si svilupperanno in altre direzioni, non
necessariamente peggiori rispetto al passato. La logica di fondo è
quella espressa mirabilmente da Dionigi nell’apertura del suo
recente volumetto “Osa sempre”, quando afferma che “dobbiamo
attrezzarci per capire e renderci amico questo futuro-presente carico
di complessità e incognite, perché esso mette in discussione le
nostre identità consolidate e rassicuranti…”. La conoscenza dei
fenomeni contribuisce a renderli nostri amici? Non mi illudo che il
processo sia così semplice e rapido, però l’incontro tra le
nostre speranze e il nostro impegno con una realtà per molti aspetti
in evoluzione autonoma rispetto alle nostre azioni dirette porta a
percorsi che possono avere un’evoluzione positiva.
Vorremmo prima di tutto prospettare una
visione diversa da quella identificata dal titolo di un famoso
editoriale di qualche anno fa: “Being old in 2040 will be no fun”;
sarebbe una resa ingiustificata sul piano di quanto possiamo
prevedere concretamente e possiamo modificare con le nostre azioni.
Anche sul piano ideale sarebbe riconoscere che la nostra specie non è
stata in grado di valorizzare il più grande dono che le è stato
fatto, cioè il prolungamento della durata vita fino ai livelli di
oggi.
Uno degli aspetti che caratterizzano da
sempre la vita degli individui è il processo di personalizzazione;
la sua concettualizzazione è però recente e così anche le sue
conseguenze sui comportamenti.
La personalizzazione, cioè la
formazione progressiva della persona, è regolata dalla genetica e
dallo stile di vita e quindi anche l’invecchiamento è modulato
dalle circostanze esterne, dall’evoluzione demografica,
dall’epidemiologia, il costume , la cultura, l’organizzazione
sociale, i servizi. Per costruire un’ipotesi credibile
dell’evoluzione della vita del singolo individuo è necessaria
un’analisi complessiva, secondo le regole di una visione che
storicamente è stata patrimonio della geriatria, che ha identificato
nella valutazione multidimensionale l’approccio corretto per
comprendere le dinamiche vitali della persona che invecchia. Nell’età
avanzata aumenta la sensibilità agli eventi esterni e quindi sempre
maggiore sarà il loro effetto sulla vita; ogni persona sarà
identificabile come un “fenotipo instabile”, caratterizzato da un
genotipo sensibile all’assommarsi di interazioni con il vissuto,
sempre diverse e di diversa incisività; pensare alla vita nelle età
avanzate come a una condizione rigida di perdita, senza alcuna
modulazione, non corrisponde quindi alla realtà. Certo, è doveroso
considerare che la fragilità che caratterizza la vita di molti
anziani riduce la loro capacità di resilienza mentre aumenta il
rischio di risposte inadeguate agli eventi vitali; però il
riconoscere i diversi percorsi sia soggettivi che oggettivi è il
punto di partenza per qualsiasi intervento che voglia contribuire al
benessere.
Invecchiare non è una malattia
Questa indicazione ha rappresentato nel
passato più lontano una rivoluzione concettuale, poi è stata
accettata, soprattutto perché permetteva una visone non negativa del
passare degli anni. Oggi, uno sguardo alla demografia e
all’epidemiologia conferma che il tempo incide in modo diverso da
un individuo all’altro e non può quindi essere considerato una
maledizione (un “induttore” di malattia).
Non si deve fare l’errore di
estrapolare dal passato l’evoluzione futura, senza considerare le
possibili multiformi interferenze esercitate dai cambiamenti degli
stili di vita, dalla comparsa di eventi naturali o sociali inattesi,
dalle scoperte della medicina.
Per esempio, non è ancora chiaro in
base a diversi studi, se la curva di aumento della spettanza di vita
alla nascita si sia almeno parzialmente rallentata. E se così fosse,
quali ne sono le determinanti? Come è possibile prevedere
l’evoluzione di un fenomeno che non abbiamo nemmeno compreso nelle
sue tendenze espansive e che, secondo alcuni, oggi si è rallentato?
Tra i comportamenti delle popolazioni
che influenzeranno certamente la vita dell’anziano nei prossimi
anni vi è la crisi della famiglia, espressa da alcuni numeri
altamente esplicativi. I matrimoni sia civili che religiosi sono in
costante diminuzione, perché sostituiti dalle unioni informali, non
regolate. Allo stesso tempo si osserva un fenomeno mai prima
registrato, cioè l’aumento dei divorzi fra gli ultra sessantenni,
che sono il 20% del totale. Inoltre, come evolverà la natalità nei
prossimi anni? Cosa è destinato a cambiare rispetto agli attuali 1.3
figli per ogni donna? In ogni modo si deve ricordare che qualsiasi
evoluzione della natalità potrà sviluppare i suoi effetti solo dopo
anni, cioè quando i potenziali neonati di oggi raggiungeranno l’età
di lavoro, contribuendo così da una parte attraverso la tassazione
all’aumento della disponibilità economica per i servizi e
dall’altra direttamente all’assistenza alle persone anziane.
Riguardo all’evoluzione nei prossimi
anni del sistema assistenziale, un aspetto cruciale è rappresentato
dalla disponibilità delle “badanti”. Cosa accadrà nel 2025? Il
fabbisogno nel nostro paese tenderà ad aumentare, senza alcuna
programmazione? la crisi economica dei paesi dell’est europeo è
destinata a non finire entro pochi anni e quindi l’emigrazione
femminile continuerà con i ritmi elevati di oggi? Fino a quando la
povertà prevarrà sulle scelte personali e famigliari, anche con il
rischio di indurre la cosiddetta “sindrome italiana”. Questo
settore è delicatissimo nella prospettiva a breve, ma sembra che
nessuno abbia interesse a controllarlo; troppe sarebbero le
problematiche da affrontare, legate all’immigrazione non regolata,
ai rapporti di lavoro in nero, alla mancanza di preparazione
specifica per l’assistenza delle persone non autosufficienti, alle
conseguenze sulla salute delle badanti e sugli equilibri delle loro
famiglie lontane.
Il problema delle badanti richiama
quello dell’immigrazione in generale, che necessariamente sarà un
problema da affrontare nel breve periodo; la condizione di una
società che invecchia costringerà ad abbandonare pregiudizi di
varia origine sotto la pressione della mancanza di manodopera, sia
per creare ricchezza in generale sia nello specifico per garantire i
servizi. Saremo in grado di fare scelte sufficientemente
intelligenti?
Non è questa la sede per analizzare i
vari aspetti dell’evoluzione epidemiologica dei prossimi anni;
limito l’osservazione, perché è un esempio particolarmente
significativo, all’analisi dell’andamento di prevalenza e
incidenza delle demenze, e della malattia di Alzheimer in
particolare. Non vi è dubbio che il numero assoluto dei malati è
destinato ad aumentare sia nei paesi ad alto reddito sia negli altri
(in questi ultimi l’aumento è molto più rilevante in conseguenza
dell’invecchiamento più rapido della popolazione avvenuto anche in
queste aree). Il punto di particolare interesse è però l’analisi
della riduzione della prevalenza di demenza in individui nati a
distanza di un certo numero di anni; nelle coorti più giovani si
assiste ad un fenomeno inatteso, e ancor oggi inspiegato
(conseguenza di un miglioramento della stile di vita, fenomeno
peraltro non così vistoso in periodi brevi)? Resta però come
indicazione di fondo sulla possibilità di intervenire ulteriormente
per ridurre “l’epidemia”. Non vi sono dati che suggeriscano un
rallentamento del fenomeno nei prossimi anni; dal punto di vista
complessivo è però poco rilevante rispetto all’aumento del numero
delle persone anziane, che porta alla continua crescita del numero
delle persone affette da patologie della cognitività. C’è da
sperare che ulteriori progressi possano esercitare un’influenza più
incisiva, riducendo ancor di più il numero dei malati, fino ad
equilibrare l’effetto dell’aumento della spettanza di vita? Non
siamo in grado di prevedere il futuro, però alcuni percorsi di
studio e ricerca sono promettenti, tra i quali la crisi
dell’interpretazione monogenetica della demenza, le differenze tra
uomo e donna, l’impennata della prevalenza dopo i 75-80 anni. Ma
quanto dovremo aspettare per avere prospettive di cura?
Come avviene per le demenze, anche per
molte altre malattie croniche lo scenario evolutivo non è chiaro; un
aspetto particolarmente critico è rappresentato dagli effetti di
queste sulla perdita dell’autosufficienza, perché spesso può
essere modulato dalle circostanze esterne. Si pensi, ad esempio, al
diabete, non prevenibile alla luce delle nostre conoscenze di oggi;
al contrario, i suoi effetti negativi sull’autonomia della persona
anziana possono essere significativamente ridotti attraverso una
medicina colta e preparata e una adeguata sensibilità collettiva,
che non accetta di essere dominata dal fatalismo.
La solitudine accompagnerà la vita
dei vecchi nei prossimi anni?
Oggi la solitudine dell’anziano è
una condizione pervasiva. L’Istat ha rilevato che il 27.7% degli
ultra 75enni “non ha nessuno su cui contare in caso di bisogno”.
L’evoluzione complessiva sembra indicare un peggioramento
progressivo di questa realtà, con le conseguenze ben note non solo
sul piano soggettivo, ma anche su quello oggettivo delle condizioni
di salute. Purtroppo le azioni sul singolo e sulle comunità non
sembrano destinate a raggiungere risultati significativi a breve;
però non vi sono alternative, se non quelle educative per dimostrare
che l’egoismo delle scelte a tutte le età si riflette in modo
pesante nella vecchiaia e quelle politiche per ipotizzare una città
diversa.
Gli interventi per costruire luoghi
dove sia possibile condividere il tempo e il dolore di non aver
nessuno che possa intervenire nel momento del bisogno non potranno
dare risultati immediati; però se in ogni città si potesse iniziare
a costruire una “social street” che mette l’anziano solo al
centro dell’interesse e delle azioni dei suoi concittadini le
dinamiche relazionali potrebbero cambiare.
La realtà della solitudine assume
molte diverse facce; è impossibile descrivere tutti i “volti”
attraverso i quali esprime le sue conseguenze negative. Una
condizione sulla quale sembra utile richiamare l’attenzione è
quella della vicinanza con animali, che può essere interpretata come
un valido tamponamento delle situazioni di solitudine, ma anche, meno
positivamente, come modo per indirizzare l’attenzione lontano dagli
affetti naturali all’interno della famiglia e delle relazioni
amicali. Non si vuole interpretare ogni comportamento secondo
indicazioni razionali, ma un’osservazione attenta permette di
raccogliere informazioni utili per indirizzare i comportamenti
individuali e collettivi.
L’esperienza che si va diffondendo
anche in Italia delle “dementia friendly community” è
particolarmente significativa, perché ha portato a risultati
tangibili e misurabili anche in tempi relativamente brevi. Se ogni
città iniziasse questo processo fondativo in un quartiere di
20-30.000 abitanti si diffonderebbe un modello di relativamente
facile adozione e di grande utilità. Infatti, iniziando dalle
persone affette da demenza e dalle loro famiglie si diffonde nella
comunità uno stile della relazioni che ricade positivamente su tutte
le condizioni di fragilità, in particolare quelle degli anziani.
Vi è scetticismo attorno alla
possibilità di reali cambiamenti a breve termine rispetto alla
solitudine delle persone anziane; l’esperienza però insegna che
anche iniziando da realizzazioni limitate si può segnare un
percorso. In questo ambito la rinuncia è un comportamento sociale
dannoso. E’ infatti sempre più chiaro, in base a dati
indiscutibili della ricerca clinica, che la costruzione di ponti, la
vicinanza e l’accompagnamento esercitano un effetto salutare in
senso stretto; se la solitudine è patogena, la generosità
individuale e collettiva allunga la vita, allontana le malattie,
riduce la possibilità di perdita delle funzioni cognitive.
Il sistema di welfare sarà in grado
di proteggere gli anziani?
Quale futuro avrà nei prossimi anni il
sistema italiano di welfare che si è progressivamente trasformato da
luogo di integrazione sociale degli individui a sistema fortemente
individualista, con operatori chiamati solo all’efficienza,
dimenticando spesso le profonde motivazioni del loro servizio, ciò
la difesa della libertà e della dignità di ogni cittadino?
Quale futuro di crisi si prospetta per
un sistema di welfare non più in grado per motivi economici di
incontrare i desideri della popolazione, che l’atmosfera culturale
di questi anni ha definito come diritti? In questo modo si provoca la
forte frustrazione di molti cittadini, illusi di poter ottenere
qualsiasi servizio e che di fronte all’impossibilità di riceverli,
diventano aggressivi e tentati di cercare capri espiatori per il loro
disagio.
Riusciremo, anche se chi scrive nutre
molti dubbi, a ritrovare attorno all’assistenza all’anziano,
ambito di particolare disponibilità verso una prospettiva
solidaristica, il legame sociale oggi ridotto, che ridarebbe senso ai
servizi come luoghi per la costruzione di ponti e non solo come
ambiti per offrire prestazioni puntiformi, inadeguate alle esigenze
di predisporre momenti di solidarietà, peraltro sempre inferiori
rispetto alla attese-pretese?
Nei prossimi anni potrà avvenire un
qualche cambiamento epocale in grado di far ritornare
l’organizzazione pubblica del nostro paese verso la logica di un
welfare che lega le persone tra di loro, garantendo così allo stesso
tempo risposte più efficaci ai veri bisogni e la sconfitta della
solitudine?
L’augurio è che a queste domande
possa essere data una risposta positiva; però se non si riuscirà a
ricostruire un senso della vita sia per gli individui che per le
comunità l’impresa sarà particolarmente difficile. I moltissimi
ostacoli organizzativi, economici, politici potranno essere superati
solo da un modello di convivenza per il quale la vita ha sempre un
senso, anche quella più povera e desolata.
Gli aspetti discussi precedentemente
non delineano un futuro certo per la vita dell’anziano; permettono
però un certo ottimismo, soprattutto perché mettono nella mani (e
nella mente) delle collettività il criterio che la vita degli
anziani non è neutra rispetto alle condizioni che caratterizzano il
loro tempo che passa. E’ una responsabilità non lieve: la
conoscenza dei fenomeni, e delle loro dinamiche in positivo e in
negativo, non permette ambiguità.