martedì 9 marzo 2021

IL VIAGGIO IN IRAQ DI PAPA FRANCESCO

 Il Papa in Iraq tra i cristiani che resistono

di Enzo Fortunato


Caro direttore, la fraternità è l’ultima frontiera dell’umanità. In queste parole uno dei motivi del viaggio di papa Francesco nella terra dei figli di Abramo. «Il mio sogno è quello di vedere il Papa in queste terre». 

Ci saluta così, con le lacrime sul volto, Hala, una delle cristiane scappate da Mosul, fissando l’immagine di Gesù appesa alla parete. Ci troviamo ad Erbil, nella sua casa, messa a disposizione dalla Caritas. Un’abitazione spoglia, con una valigetta che custodisce i suoi ricordi. Accanto a me, Lucia Annunziata, e alcuni giornalisti di Bloomberg e del Washington Post , per un reportage.

Il viaggio continua dalla Chiesa della Resurrezione, a Qaraqosh, ci accompagna Padre Attalla. 

Mentre osserviamo il tetto divelto e i fori dei proiettili di kalashnikov sulle pareti, mi mostra ciò che è accaduto tutto intorno: 116 case bombardate, 2228 bruciate dalla furia ideologica dell’Isis. 

Cancellare è il motto della violenza. I pezzi di legno carbonizzati che troviamo a terra, tra vetri e pietre, non sono altro che le panche incendiate. «Noi siamo ancora vivi, siamo potuti tornare nella nostra terra. Non ci resta che ricostruire. Risorgeremo». Come faranno? Daesh è ancora presente nella paura dell’altro. Chi pensa che il martirio delle comunità cristiane fosse una pagina archiviata si sbaglia. «Non eravamo pronti», sono le parole del vescovo caldeo di Erbil, Monsignor Warda, quando gli chiedo se non hanno sottovalutato il problema davanti a quello che può esser definito il nuovo esodo biblico. 

Erano un milione e mezzo nel 2003. Oggi le stime della chiesa parlano di non più di 300 mila cristiani. «Abbiamo dovuto imparare a prenderci cura di loro, a ricostruire, a ricucire il tessuto sociale, a ridare lavoro e dignità».

Ci portiamo ad Alqosh, dove nei caveau delle sagrestie troviamo i registri dei battesimi di Bagdad e Mosul. Il loro inchiostro ci fa capire la cruda verità: in queste zone i cristiani stanno scomparendo. 

Riusciamo a raggiungere Mosul, nascondendo le telecamere sotto le giacche, penna e taccuino sotto la tonaca. Attraversiamo cinque checkpoint, non senza paura. Qui, oltre al monastero di San Giorgio, distrutto, prigione dell’Isis, incontriamo una delle dieci famiglie cristiane in questa città. Sono ritornati. È la terra dei loro padri: «Non ci daremo pace finché non sarà ricostruita la nostra chiesa».

A chi incontriamo, consegniamo la croce di san Damiano, che ricorda le parole rivolte a san Francesco: «Va e ricostruisci la mia casa, che come vedi è in rovina». Nessuno dimentica le minacce ricevute dai soldati di Daesh: «O vi convertite o andate via, altrimenti vi ammazziamo». Ora attendono un lavoro. I sacerdoti vanno avanti con la stola e il grembiule donando i sacramenti e cercando di creare ospedali, scuole e centri sociali. Nel ritorno a Erbil, passiamo per Karamlesh e Bartella. Ci aspetta il vescovo siro cattolico, Monsignor Mouche, che ci mostra il cortile della Chiesa più grande di tutto il Medio Oriente usata dall’Isis come scuola di addestramento. Nelle pareti trivellate si vedono ancora i proiettili conficcati. Mentre usciamo, i giovani ci salutano. Il loro sorriso rappresenta la speranza. Come fanno a sopportare tanta sofferenza? La risposta è nella patria di Abramo, è qui che la terra si fa Storia. La Chiesa sa che la protezione dei cristiani di Iraq passa attraverso il superamento del settarismo che ha fatto di loro, anche in tempi recenti, delle vittime.

«Un viaggio in cui - ha ricordato il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei - si parlerà di rispetto reciproco, dialogo interreligioso e ricerca di principi comuni tra cristianesimo e islam». E se questi luoghi rappresentano i focolai di tutte le guerre, questo pellegrinaggio rappresenta il padre di tutti i viaggi.

L’autore è direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi

La Repubblica, 1 marzo