domenica 21 marzo 2021

PROBLEMI E SPERANZE DEL PARTITO DEMOCRATICO

 Il campo del Papa straniero 

di Ezio Mauro

La Repubblica 15/3

Sembrava quasi un Papa straniero, o almeno un figliol prodigo, Enrico Letta mentre ieri pronunciava i nuovi comandamenti del Pd nell’assemblea che lo ha eletto quasi all’unanimità segretario del partito.

Naturalmente non è un uomo nuovo, bensì un erede legittimo della cultura democratica.

Con l’Ulivo di Prodi come padre e l’Europa di Delors come madre.

Ma l’immersione di sette anni nel mondo del lavoro dopo l’ostracismo seguito all’invasione renziana di palazzo Chigi, lo studio e l’insegnamento, l’esperienza internazionale, lo rendono atipico e soprattutto libero rispetto al ceto dirigente che l’ha richiamato sulla spinta del "primum vivere": dopo che la "vergogna" con cui Zingaretti ha maledetto il Pd ha rivelato la rottura anche del linguaggio, espressione di una comunità, e infine della sacralità del partito come patrimonio collettivo. Quella libertà ieri Letta l’ha usata per dire al Pd che d’ora in poi dovrà guadagnarsi il pane quotidiano, perché è finita la stagione del governismo come identità mascherata da necessità, e si andrà al governo non più comunque ma se si vinceranno le elezioni, sapendo che alle urne si vince se non si ha paura di andare all’opposizione. 

È chiaro a tutti, e al nuovo segretario in particolare, che il consenso elettronico unanime di ieri nasconde l’ambiguità di un gruppo dirigente abituato a negoziare più che a scegliere, come dimostra la mancanza di una vera battaglia politica sulle dimissioni di Zingaretti, neutralizzando il clamore del gesto come se tutto dovesse sempre aprirsi e chiudersi dentro il ceto politico, senza un rapporto di trasparenza, di democrazia o anche soltanto di vitalità con la base dormiente del partito. Letta era il più forte e autorevole tra i candidati alla leadership. Per diventare un segretario forte ha un’unica strada: prendere atto di questo "ground zero" del Pd e conquistarsi ogni giorno la leadership nel Paese più che nel Palazzo, con una ricostruzione culturale e sociale che sfidi le resistenze interne. E intanto — ecco il fatto nuovo — apra la partita dell’egemonia fuori dal partito, nel "campo" che si sta appena formando a sinistra. Stiamo infatti passando dalla democrazia dei partiti alla democrazia del "campo". Non è una novità da poco, e rischia di cambiare le regole del gioco. Nell’anno zero della grande crisi, infatti, non tutto è distruzione, rottura e rovine. Il Big Bang è evidentemente in atto, con la sua azione di scomposizione e ricomposizione delle forze politiche, e anche le fratture che non sono ancora evidenti sono già tracciate nella faglia tra Europa e sovranismo, Occidente e tentazione polacca, lepenismo d’importazione e conservatorismo mimetico, liberalismo e post-democrazia, nuovo centro e vecchia sinistra. 

Apparentemente, oggi tutte le tensioni sembrano precipitare nel Pd, come se alla forza-chiave dell’equilibrio precedente toccasse il compito di assorbire l’intero travaglio del sistema. Ma in realtà lo stesso Pd è al centro di un processo più ampio di trasformazione del paesaggio politico e di riconfigurazione degli equilibri.

In crisi da anni, il concetto di sinistra sta infatti cominciando a vivere la sua ultima mutazione. Con la leadership di Conte, il dialogo aperto con i socialisti europei, l’ingresso nella giunta Zingaretti nel Lazio, il progetto di alleanza con il Pd nei municipi, il M5S sta facendo una scelta di centrosinistra senza dirlo ad alta voce: forse addirittura senza saperlo, nel senso che gli eventi dettano la strategia. Ma intanto appoggiando Draghi il movimento sceglie in realtà l’Europa come sfondo e la responsabilità di governo come identità. Ed è evidente che nella vasta maggioranza che sostiene il premier i grillini, il Pd e Leu si predispongono a operare come il contraltare di Salvini, senza lasciare che la destra interpreti a modo suo gli atti di governo. Nello stesso tempo questa nuova conformazione dei Cinquestelle porta dentro la cultura del centrosinistra elementi di radicalità populista, filtrando quel disagio democratico che nel recente passato aveva preso la forma dell’anti-politica, anzi della contestazione al sistema. Almeno in questa fase di passaggio il movimento di Grillo potrebbe puntare su una sua doppia vocazione di governo e di alternativa, se Conte riuscirà a regolare i due istinti contraddittori, sommando i consensi che possono derivarne. Può nascere dunque a sinistra un inedito movimentismo di governo, che gioca il suo protagonismo dentro le istituzioni e fuori, contemporaneamente.

L’altra novità nella stessa area è il progetto politico che sta nascendo sul tema dell’ambiente. Le condizioni fissate dall’Europa per il Recovery Plan obbligano l’Italia a varare un piano di riforme per la transizione ecologica che segua gli obiettivi del Green Deal, il patto europeo per il clima, con lo stanziamento di 100 miliardi all’anno per arrivare all’azzeramento delle emissioni nel 2050 e per contenere l’aumento della temperatura entro 1 grado e mezzo. Questo è un caso di scuola, perché normalmente sono i partiti che creano una politica: qui invece le risorse determinano una strategia politica, anzi la producono: e addirittura risorse e strategia possono generare un soggetto politico che in Italia manca, invertendo l’ordine naturale delle cose. 

Nasce così la corsa a occupare l’area verde potenziale, partendo più dal vertice che dalla base. Ma inserendo intanto nella scena della sinistra un nuovo attore per esercitare la titolarità di quei temi e la rappresentanza di quegli interessi, che nel Paese stanno crescendo, impellenti e reali.

Nel nuovo centrosinistra italiano si confronteranno dunque una cultura democratica figlia della tradizione, un populismo moderato in via di definizione, un ambientalismo nascente in cerca di affermazione, un laburismo residuale con venature d’opposizione. Sono i quattro angoli che disegnano il "campo" progressista destinato a contendere il Paese alla destra. Ma sono anche i quattro soggetti che si disputeranno il capitale culturale, sociale e simbolico di quel campo, che è per definizione un luogo di concorrenza interna e di lotta, di mercato per la conquista di quell’autorità, di quel riconoscimento e di quella legittimazione che assegnano la guida e l’egemonia politica di un’area.

La partita a sinistra è quindi aperta, e il Pd non è più il padrone di casa, ma un inquilino di rilievo. Sta a Letta riconquistare il potere ideologico perduto, il più forte dei poteri sociali, la capacità cioè di nominare le cose, di determinare il profilo dell’intera area a partire dalla ridefinizione identitaria del Pd come moderna sinistra occidentale ed europea, in grado di riprendere una relazione con la società e di avviare il progetto di ricostruzione del Paese. Il richiamo insistito alle coalizioni, nel discorso di ieri, rivela che Letta è già nella logica del "campo" di centrosinistra, da organizzare per contendere il Paese alla destra. In questa destra c’è oggi un interesse comune, unico cemento dell’alleanza, ma le culture sono divaricate in tre direzioni: nazionalista con Meloni, sovranista con Salvini, moderata con Berlusconi. Il governo di tutti mette a proprio agio sia Berlusconi, che può manifestare il suo liberalismo di destra, intermittente, sia Meloni, che può intascare i dividendi di un’opposizione in esclusiva, costante: ma nello stesso tempo evidenzia la collocazione innaturale di Salvini, con un piede nella stanza di Draghi e l’altro in quella di Orbán, in un’ambiguità geopolitica irrisolta: fino a quando? Soprattutto, a destra manca una cultura unificante e non si vede un soggetto federatore del "campo" com’è stato per un ventennio Berlusconi, leader naturale dell’intera area e non solo del suo partito, mentre oggi nessuno sembra in grado di andare oltre i suoi confini per creare quella moderna destra europea che l’Italia non ha mai avuto. Non è ancora arrivato il momento. Resta il centro, che non è un "campo" bensì un luogo di velleità e nostalgie, in grado di produrre assemblaggi e alleanze, ma non una cultura autonoma. Quei partiti possono sopravvivere artificialmente fino alle elezioni, per poi aspettarne l’esito e prendere camaleonticamente il colore del vincitore. Oppure possono entrare fin d’ora in uno dei due campi, per influenzarne la politica e l’identità, se hanno le idee per farlo e il coraggio per scegliere. È chiaro fin d’ora che la sfida per la ripresa dopo il virus si giocherà tra i due grandi campi, più che tra i partiti. 

La destra, divisa, è in vantaggio, perché oggi ha la forza dei numeri, e può pescare sia dal mercato di governo che da quello di opposizione. Ma la sinistra, confusa, potrebbe contrapporre la forza della politica, se proponesse al Paese l’ambizione di riformulare l’alleanza tra welfare, capitalismo, diritti e democrazia rappresentativa, riscrivendo il contratto sociale per il dopo-crisi.