La fine del blocco dei licenziamenti apre un’estate complicata
31-05-2021 - Angelo Mastrandrea
Volerelaluna
Non
si prospetta un’estate tranquilla per i 55.817 lavoratori coinvolti nei
99 tavoli di crisi aperti al ministero dello sviluppo economico. Sono
quelli che più di tutti rischiano di ritrovarsi disoccupati dopo che il
governo ha deciso di non prorogare il blocco dei licenziamenti.
La
misura, presa un anno fa dal governo Conte per evitare che la pandemia
di covid-19 provocasse una crisi sociale, a marzo 2021 era stata
prolungata al 30 giugno dal nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi.
Nella prima versione del decreto Sostegni bis il blocco arrivava al 28
agosto.
Il presidente degli industriali Carlo Bonomi in un’intervista al
Messaggero ha parlato di “intese tradite”, mentre il Sole24ore ha
titolato “L’inganno di Orlando sui licenziamenti”, accusando il ministro
del lavoro di aver violato accordi già presi per cancellare il divieto
di licenziare. Dopo le proteste, la norma è scomparsa. Nel decreto
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale è rimasta solo la parte che prevede
la possibilità di far ricorso alla cassa integrazione senza pagare
l’aliquota addizionale per le imprese che decidano di non licenziare.
La
cancellazione della proroga ha indisposto i sindacati, che hanno
accusato il governo di aver ceduto alle pressioni degli industriali. In
una nota congiunta, i segretari di Cgil, Cisl e Uil hanno definito
“inaccettabile e socialmente pericolosa la posizione della
Confindustria”, sostenendo che “non possiamo assolutamente permetterci
il rischio della perdita di ulteriori centinaia di migliaia di posti di
lavoro”.
Di fronte alle critiche, Draghi ha difeso la fine del blocco
dei licenziamenti, sostenendo che “l’intervento che abbiamo previsto è
in linea con tutti gli altri paesi europei e garantisce la cassa
integrazione gratuita in cambio dell’impegno di non licenziare”.
In
Europa, solo Grecia e Spagna (e il Lussemburgo da aprile a giugno del
2020) hanno stabilito un divieto simile a quello italiano, anche se meno
esteso. Atene ha proibito i licenziamenti nelle aziende che hanno
dovuto sospendere le attività durante il lockdown, mentre Madrid ha
stabilito che non si può mandare a casa nessuno nei sei mesi dopo la
fine della cassa integrazione per covid. La Francia ha aumentato i
controlli sui licenziamenti per evitare abusi. In molti altri paesi
europei si è deciso di gestire l’emergenza attraverso gli ammortizzatori
sociali e gli aiuti alle imprese.
I licenziamenti durante il lockdown
Nessuno
sa cosa potrebbe accadere in Italia dal primo luglio 2021. Il
segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha paventato “uno tsunami di
licenziamenti”, fino a due milioni di posti di lavoro in fumo. Altre
fonti sindacali fanno però sapere in via informale che fare previsioni
in questo momento è quanto meno azzardato. L’impatto della fine del
blocco in realtà potrebbe essere sì pesante, ma più contenuto almeno in
alcuni settori, poiché il fatturato dell’industria italiana sarebbe già
tornato ai livelli pre-pandemia.
L’ultima
nota dell’Istat, pubblicata l’11 maggio 2021, fa registrare a marzo
2021 un più 37,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. Il
manifatturiero in particolare ha retto al punto tale che la banca
d’investimento Goldman Sachs, in un report pubblicato a marzo 2021, l’ha
indicato come base da cui ripartire per una “ripresa solida”.
Inoltre,
ragiona più di un esperto, le aziende che avevano necessità di
alleggerire il costo del lavoro hanno già adottato altre misure durante
la pandemia, come non rinnovare i contratti a termine ed evitare di
sostituire chi è andato in pensione.
Multinazionali
come la Yokohama a Ortona e la Henkel o la Teva in Lombardia hanno
deciso di chiudere stabilimenti e licenziare gli operai in pieno
lockdown, senza passare neppure per la cassa integrazione. L’Eurostat ha
stimato un calo dello 0,9 per cento del tasso di occupazione durante la
pandemia, mentre l’Istat ha calcolato in 945mila i posti persi tra
febbraio 2020 e febbraio 2021.
Alla Cgil temono licenziamenti collettivi, in particolare nel comparto della moda
Ciò
non vuol dire che il blocco dei licenziamenti non ha funzionato, anzi
ha consentito di arginare e diluire la crisi, evitando un bilancio ben
più grave. Non significa neanche che la sua cancellazione sarà indolore.
Secondo le stime della Banca d’Italia, con la fine del divieto di
licenziare rischia di saltare fino a mezzo milione di posti di lavoro.
Nella sede centrale della Cgil a Roma si teme che la richiesta degli
industriali di avere mano libera su questo tema nasconda un piano ben
preciso: utilizzare i licenziamenti “come strumento per riorganizzare il
lavoro e la produzione” nei settori colpiti dalla crisi e pure laddove
la pandemia non ha provocato crolli, dice la segretaria confederale
Tania Scacchetti, che ha seguito da vicino le trattative con il governo.
Alla
Cgil temono un’estate di licenziamenti collettivi, in particolare nel
comparto della moda dove, secondo uno studio di Mediobanca, nel 2020 le
aziende hanno visto contrarsi il fatturato del 23 per cento rispetto al
2019.
A rischio sarebbero 20mila posti di lavoro in tutto il settore.
Al
ministero dello sviluppo economico già sono arrivate le prime
richieste. Dopo due mesi di stallo seguiti al cambio di governo e allo
scontro sulle deleghe tra il nuovo ministro Giancarlo Giorgetti (Lega) e
la viceministra Alessandra Todde (M5s), i rappresentanti di due grandi
aziende di abbigliamento si sono presentati nella sede del ministero di
via XX Settembre a Roma. La Brioni, di proprietà del gruppo francese
Kering, ha avviato le trattative per un ridimensionamento dell’organico
dei siti produttivi di Penne, Montebello di Bertona e Civitella
Casanova, presentando un piano di esuberi per 320 lavoratori. La
vicentina Forall confezioni, proprietaria dello storico marchio Pal
Zileri, ha aperto una procedura per cessazione attività che lascerà a
casa 250 dipendenti.
Le nuove crisi si
sommano a quelle già in corso.
Alla Bekaert di Figline Valdarno, in
Toscana, rischiano in 318; alla Acque minerali spa, dove si
imbottigliano la Gaudianello e la Sangemini, i posti traballanti sono
460. I primi in assoluto a essere licenziati potrebbero essere i
lavoratori della Whirlpool di Napoli. La fabbrica è già stata chiusa e
dal 1 luglio 2021 in 350 potrebbero rimanere a casa in via definitiva. A
questi andrebbero aggiunti altrettanti lavoratori dell’indotto. Per
questo il 27 maggio 2021 gli operai sono andati a manifestare a Roma. In
piazza Santi Apostoli si sentivano più slogan contro il governo che
contro l’azienda. “Con la fine del blocco dei licenziamenti per queste
persone si prepara il disastro”, dice Barbara Tibaldi, sindacalista
della Fiom-Cgil.
Il precedente governo
Conte era riuscito a diminuire il numero delle vertenze aperte, da 140 a
99. A dicembre 2020, con il cosiddetto decreto Rilancio, aveva
istituito un fondo di garanzia che consente l’ingresso dello stato come
socio di minoranza, attraverso la società pubblica Invitalia, per
facilitare la ristrutturazione delle aziende in crisi. Lo ha utilizzato
per primo il nuovo ministro Giorgetti, che a fine marzo 2021 ha
annunciato un investimento di dieci milioni di euro per evitare la
liquidazione dello storico marchio di abbigliamento mantovano
Corneliani, consentendo di riprendere la produzione e salvando
cinquecento posti di lavoro. Altri sette milioni arriveranno da
investitori privati.
“Mantova è
un’apripista per salvare le imprese e creare nuovi posti di lavoro, il
momento è propizio perché ci sono le condizioni migliori possibili per
imprenditori che volessero accettare la scommessa”, ha dichiarato il
ministro.
L’esponente della Lega ha in seguito riproposto il “modello
Corneliani” per risolvere le crisi dell’Acc di Belluno, un’azienda che
produce compressori per frigo, e dell’ex Embraco di Chieri, una fabbrica
di elettrodomestici. Il fondo di garanzia ha una dotazione di cento
milioni di euro per il 2021, una cifra sufficiente a risolvere non più
di una decina di crisi aziendali. Se dovessero moltiplicarsi, ci sarebbe
bisogno di ben altro.