Emozioni in vendita
Ho
un figlio di tre anni e mia
sorella
mi critica perché
metto
le sue foto sui social.
So
bene che Facebook raccoglie i dati, ma non m'importa perdere un po'
di privacy pur di condividere bei
momenti
con gli amici.
-Nadia
Nel
libro I figli dell'algoritmo
(Luiss
University Press 2021),
l'antropologa
Veronica Barassi
racconta
la storia di Gillian
Brockwell,
una giornalista del
Washington
Post che nel 2018
ha
avuto un aborto spontaneo
in
gravidanza avanzata. Dopo
aver
dato la notizia su Twitter, per settimane ha continuato a
ricevere
pubblicità di prodotti
per
neonati. Alla fine ha scritto
una
lettera aperta alle grandi
aziende
tech, in cui chiedeva a
Facebook,
Amazon, Instagram
come
mai avessero tracciato
i suoi
post sul baby
shower,
la ricerca di culle o l'acquisto di
abiti
premaman ma non l'avessero vista cercare su Google" parto
prematuro" o "bambino
che
non si muove". "Non vi siete accorti dei miei tre giorni di
silenzio
sul social, insoliti per un'utente
molto attiva come
me?
E poi il mio post con parole chiave come 'cuore spezzato',
'problema', 'nato morto'? E le duecento emoticon di lacrime dei miei
amici? Queste non
sono
cose che si possono tracciare?".
Brockwell ha ricevuto pubblicità per future mamme per settimane fino a quando Facebook ha cominciato a proporle annunci di agenzie per l'adozione. Quando condividiamo qualcosa online mettiamo le nostre emozioni nelle mani di un sistema che non ha a cuore il nostro benessere, ma la commercializzazione del nostro tempo e della nostra attenzione. Credo sia utile avere una sorella che ce lo ricordi.
Claudio Rossi Marcelli, Internazionale 12 novembre