lunedì 4 aprile 2022

LA PAROLA

 La parola

carcere

Nonostante la promessa di non vedere più la barbarie di bimbi costretti alla detenzione per non essere allontanati dalle madri punite, il dramma resta. E chiamiamolo «carcere», etimologicamente più accettabile forse, perché richiama una recinzione, o «prigione», che rimanda alla «cattura» come si trattasse di battute di caccia, o «galera», che ci riporta alla condanna a remare (da cui quel «galeotto» che il V canto dell'Inferno ha immortalato per ben altre ragioni), non cambia la condizione inaccettabile di bambini circondati da sbarre che segneranno i loro ricordi d'infanzia. Il problema non è tra chi è giustizialista e chi non lo è, invece, una questione insieme di pedagogia, principi negati e giustizia. E, a voler andare più a fondo, chiedersi finalmente se il carcere sia la soluzione o non piuttosto un modo per liberarsi in fretta della questione di reinserire il condannato nella società.

Figurarsi, quindi, quando tra le sbarre c’è qualcuno che non ha alcun motivo per ritrovarcisi, un bambino. E non è buonismo, è realtà: il carcere non ha mai reso nessuno migliore; di fronte a un fallimento, si provano altre strade: noi no, invochiamo pene più dure, che non servono. E non pensiamo che in quel recinto, diviso dal mondo, c'è un bambino, privato dei propri diritti, nonostante le responsabilità siano sempre individuali. Per lui questo principio non vale, e la madre sentirà un odio per sé, per la società che non la renderà migliore. «Ci pensi prima la prossima volta!», sento tutte le contestazioni, lo stigma per la colpevole, la certezza che sia la strada giusta, ma quel bambino è l'innocente per cui lottiamo in altre battaglie molto più comode, dove il bianco e il nero sono ben distinti, soltanto non può far sentire la sua voce.

LARA CARDELLA, L’Espresso 27 marzo